Domenico Barlachia (ribattezzato Barlacchio che in dialetto significa “sciocco”) nacque a Firenze nella prima metà del secolo XVI dove svolse attività di pubblico banditore, ma era conosciuto per essere il vivace e arguto animatore di allegra brigate. Un eclettico conversatore e ricercato commensale fu tra i promotori di una particolare accademia , denominata della “Cazzuola” (termine che derivò da uno scherzo fatto a uno dei soci, presentandosi con una cazzuola di calce facendogliela credere per ricotta) cui facevano parte grandi e importanti letterati del periodo e dove il Barlachia diede adito alla sua aspirazione migliore, la recita teatrale.
Fu tale la sua capacità e scaltrezza nell'ottenere un posto di rilievo nella vita cittadina che addirittura il signore Strozzi lo nominò in uno dei suoi famosi sonetti. Ma il momento ottimale per la sua fama di attore l'ebbe nel 1548 quando a Lione, in occasione dei festeggiamenti di Enrico II, mise in scena insieme a altri attori fiorentini la “Calandra” di Bibbiena, ottenendo così un encomio notevole, tanto che il re stesso volle che lo spettacolo fosse ripetuto e questa volta, il re e la regina furono spettatori in incognita che dopo la rappresentazione offrirono agli attori una cospicua somma in scudi, tanti da appropriarsene ciascuno una grossa borsa.
Non mancò di trascrivere la sua vena ironica e umoristica e ne rimangono tracce nella raccolta di “Novelle, facetie, motti et burle di diversi autori, riformate e corrette”.
Io riporto oggi una delle sue novelle, da me riadattata, tratta da una vecchia antologia che ho scoperto e comprato in uno dei tanti mercatini dell'usato, un'antologia di Giuseppe Parisi, “Il Centonovelle” del 1953.
Fu tale la sua capacità e scaltrezza nell'ottenere un posto di rilievo nella vita cittadina che addirittura il signore Strozzi lo nominò in uno dei suoi famosi sonetti. Ma il momento ottimale per la sua fama di attore l'ebbe nel 1548 quando a Lione, in occasione dei festeggiamenti di Enrico II, mise in scena insieme a altri attori fiorentini la “Calandra” di Bibbiena, ottenendo così un encomio notevole, tanto che il re stesso volle che lo spettacolo fosse ripetuto e questa volta, il re e la regina furono spettatori in incognita che dopo la rappresentazione offrirono agli attori una cospicua somma in scudi, tanti da appropriarsene ciascuno una grossa borsa.
Non mancò di trascrivere la sua vena ironica e umoristica e ne rimangono tracce nella raccolta di “Novelle, facetie, motti et burle di diversi autori, riformate e corrette”.
Io riporto oggi una delle sue novelle, da me riadattata, tratta da una vecchia antologia che ho scoperto e comprato in uno dei tanti mercatini dell'usato, un'antologia di Giuseppe Parisi, “Il Centonovelle” del 1953.
TRE VIANDANTI E UN PANE
C'erano tre viandanti che per un lungo viaggio che dovevano intraprendere si trovarono ad attraversare un enorme e pericoloso bosco da cui difficilmente potevano trovare da procurarsi da mangiare, e essendo ormai assai stanchi e pure affamati si trovarono a doversi riposare.
Tra loro c'era uno dei tre che aveva nella sua sacca un grosso pane, e così gli altri due, credendolo e vedendolo alquanto sciocco, pensarono di farne uso per un loro scherzo onde così procurarsi il pane e dividerselo.
Questi due cominciarono a dire:
“Noi siamo tre e non abbiamo che un pane solo, sarebbe bene che facessimo im modo e maniera che potesse toccare tutto ad uno solo, e si potrebbe addormentarsi tutti e tre in questo prato e poi chi farà il sogno più bello sarà premiato appunto con quel pane”.
Furono d'accordo tutti e tre e subito si sdraiarono, ognuno in un suo posto, i due dell'inganno sicuri che l'altro, sciocco come pareva, si sarebbe certamente addormentato e non avrebbe certo immaginato del loro inganno, e così pensando e prevedendo si addormentarono subito anche e comunque per la stanchezza che avevano appresso.
Il terzo vedendoli addormentati pensò ben bene che avessero qualche brutta intenzione, invece di dormire subito, prima si mangiò l'intero pane e poi rifocillato si lasciò andare nelle braccia di Morfeo.
Al risveglio dei due, destarono subito il terzo e il primo iniziò a raccontare che aveva fatto un sogno meraviglioso tanto bello che era arrivato persino in Paradiso, il secondo addirittura era giunto invece fino all'Inferno e ne aveva viste di cotte e di crude.
Al che chiesero al terzo il suo sogno e lui disse che aveva sognato loro due che erano andati, uno in Paradiso e l'altro nell'Inferno, e credendoli che non tornassero più, perchè nessuno è più tornato da quei posti, si era mangiato il pane.
I compagni erano stati ben gabbati da quello che loro ritenevano “sciocco”.
Tra loro c'era uno dei tre che aveva nella sua sacca un grosso pane, e così gli altri due, credendolo e vedendolo alquanto sciocco, pensarono di farne uso per un loro scherzo onde così procurarsi il pane e dividerselo.
Questi due cominciarono a dire:
“Noi siamo tre e non abbiamo che un pane solo, sarebbe bene che facessimo im modo e maniera che potesse toccare tutto ad uno solo, e si potrebbe addormentarsi tutti e tre in questo prato e poi chi farà il sogno più bello sarà premiato appunto con quel pane”.
Furono d'accordo tutti e tre e subito si sdraiarono, ognuno in un suo posto, i due dell'inganno sicuri che l'altro, sciocco come pareva, si sarebbe certamente addormentato e non avrebbe certo immaginato del loro inganno, e così pensando e prevedendo si addormentarono subito anche e comunque per la stanchezza che avevano appresso.
Il terzo vedendoli addormentati pensò ben bene che avessero qualche brutta intenzione, invece di dormire subito, prima si mangiò l'intero pane e poi rifocillato si lasciò andare nelle braccia di Morfeo.
Al risveglio dei due, destarono subito il terzo e il primo iniziò a raccontare che aveva fatto un sogno meraviglioso tanto bello che era arrivato persino in Paradiso, il secondo addirittura era giunto invece fino all'Inferno e ne aveva viste di cotte e di crude.
Al che chiesero al terzo il suo sogno e lui disse che aveva sognato loro due che erano andati, uno in Paradiso e l'altro nell'Inferno, e credendoli che non tornassero più, perchè nessuno è più tornato da quei posti, si era mangiato il pane.
I compagni erano stati ben gabbati da quello che loro ritenevano “sciocco”.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Vincenzo Campi - I mangiatori di ricotta per la Compagnia della Cazzuola
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