martedì 29 settembre 2020

DAVID DEWEERDT E LE SUE FIGURE


E' un giovane artista belga, un espressionista moderno e incisivo, un Maestro della psicologia interiore espressa in pittura, insomma stiamo parlando di David Deweerdt e le sue figure sorprendenti, esseri umani che sprigionano esteriormente la loro labile psicologia interiore.

Deweerdt ha lavorato per vari anni come educatore di salute mentale e insieme ha pure continuato il suo lavoro di pittura che aveva studiato nei primi anni'90, ed è proprio nel dare aiuto ai disabili, a coloro che avevano disturbi di comportamento e autistici che ne ha ricavato ispirazione.

La sua è una tecnica mista ed è una complessa ricerca di colori che lui esegue prima di imprimere su tela, una ricerca che è basata anche su accurati disegni, modelli iniziali delle sue opere e a una curata attenzione dei dettagli e della precisione.

Sono figure umane, le sue, che parlano con l'unica lingua che queste persone portatrici del loro handicap mentale possano comunicare, i suoi sono soggetti umani rappresentati nelle più svariate posizioni e atteggiamenti, ma quello che colpisce è l'integrità e la vivacità del colore che pulsa all'interno di queste figure, un discontinuo e preciso movimento di pennello a esprimere l'urlo, l'aiuto, il bisogno di liberarsi di un male che non riesce ad uscire dal corpo, una disperata evocazione di parole e bisogni senza lettere e rumore, ma solo colore e forme circolari o macchie.

Lui stesso denuncia il suo lavoro espressamente figurativo, la sua intenzione non è quella di mostrare esplicitamente la realtà, ma utilizzare una parte dell'anatomia umana e lasciare trasparire i colori e i tormenti all'interno del corpo.

L'intento di questo notevole, e a mio parere, eccelso artista è di stimolare tramite i suoi dipinti, la società, perchè abbia più rispetto per queste persone soggette a labilità mentali e non, persone che soffrono giornalmente e per tutta la loro esistenza e non hanno altra espressione di comunicabilità che il loro sguardo e la loro forte gestualità, l'intento, dovutamente riuscito, di far conoscere questo “dolore” interiore con la materializzazione figurativa delle incisive pennellate e delle variazioni tonali di colore.

Vi allego il suo link personale perchè possiate ammirare una varietà delle sue opere e valutare così ciò che ho espresso.


http://www.daviddeweerdt.com/figuration_critique_.A.htm


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Un'opera di David Deweerdt

mercoledì 23 settembre 2020

GITA NELLA MIA LIBRERIA


Quante volte, io almeno ho questo “vizio”, vi soffermate davanti alla vostra libreria, che sia di uno scaffale o di cento e più, e vi ponete la domanda “ ma quanti di questi libri ho davvero letto?”, la mia risposta è il 90% e che rapportato a 10 libri ne rimarrebbe uno, un piccolo libro nascosto magari dietro ad altri, forse comprato così per curiosità e poi dimenticato, insomma sarebbe un'inezia, ma se rapportato a 100 libri fanno già 10 che non ho letto, e diventa pugno nel cuore, il saperli li sugli scaffali e non averli nemmeno sfogliati o ammirati, saperli li tra i tanti, sconosciuti e miseramente scartati, non faccio altre proporzioni perchè mi diventa uno spasmo al cuore che non saprei trattenere il pianto....vi immaginate in una libreria dove ci sono circa 1000 libri e sapere che 100 non li conosci nemmeno.....AIUTO!

E allora ho imparato, almeno dai tempi in cui studiavo nella biblioteca e dai tempi in cui mi soffermo nelle librerie con la dovuta calma e tranquillità, a fare ogni tanto una specie di “sopralluogo”, ovvero scorrere tra gli scaffali e con calma prendere un libro a caso e sfogliarlo, leggerne alcune parti, insomma cercare di scoprirlo, e anche se fosse un libro che ho già letto, sono sicuro che magari alcuni brani, alcuni periodi, alcuni modi di scrittura e chissà che altro, non li ricordo sicuramente e me ne faccio “cultura”, e così proseguo poi a un altro e un altro ancora e sono sicuro che mi verrà tra le mani anche quello che ho dimenticato, quello che non ho letto per chissà quale motivo, insomma è un metodo che mi fa sentire meno in colpa verso quei libri che ho bistrattato, che non ho menzione nei miei ricordi e invece, al tempo, li avevo forse osannati.

Volete una prova di ciò che ho detto, bene allora oggi insieme a voi, mentre sto scrivendo, facciamo questa “gita nella mia libreria”...alcuni accenni, o prendo a caso, vi riporto alcune frasi e vi do il titolo e l'autore a cui faccio riferimento.....e vediamo cosa ne nasce.

“Se Gesù era anche Dio, è chiaro che non si può uccidere una divinità contro il suo volere. Si può uccidere, non il Dio ma l'uomo, se questo uomo-dio vuole essere ucciso......” (Corrado Augias – Le ultime diciotto ore di Gesù.)

E' impressionante come alla prima “presa fortuita” sia capitato questo libro e sopratutto questo angoscioso dubbio....in un momento particolare che stiamo vivendo tutti quanti, nel mondo, dove la religione e il credere hanno da una parte forte potenzialità emotiva e dove insieme sorgono incisivi i dubbi e le perdite delle speranze.....Se Gesù “era anche” Dio.

“Era là steso, con la lunga carcassa e i suoi grossi fianchi, simile a un animale preistorico: la pelle simile a caucciù vulcanizzato e vagamente trasparente , e vi si vedeva sopra la cicatrice d'una ferita di corno mal guarita.......(Ernest Hemingway – Verdi colline d'Africa)

Ci siamo imbattuti in un'avventuristica esplorazione, un animale, se non erro un rinoceronte, abbattuto, la caccia, quello sport sovrumano che l'uomo fa indiscriminatamente contro gli animali indifesi che non hanno la stessa arma potente , ma solo la loro naturale forza. Ma l'uomo caccia non solo per sport ma anche per una sopravvivenza, una sopravvivenza dettata da leggi superiori, dove da essa si trova riparo per il suo vivere e lusso per coloro che sfruttano tutto questo....”la caccia sull'uomo”.

“ E' il 10 maggio. Siamo senza riso e qui non ne possiamo comprare perchè non si trova. Non abbiamo mangiato che un poco di segala e siamo andati a dormire con lo stomaco vuoto. Non avremo riso fino a domani sera, se va bene. Com'è brutta la fame, non ho voglia di scrivere....” (Oriana Fallaci – Niente e così sia)

Guerra, maledetta guerra, Vietnam allora, altre e altre ancora, una donna, un essere discriminato in un mondo di soli uomini, uomini?, bestie! Guerra, fame, distruzione, una giornalista o un essere umano?......com'è brutta la fame, non ho voglia di scrivere.

Questo libro che ho tra le mani, anche questo casualmente preso tra i tanti, si apre quasi automaticamente da solo ad una precisa pagina, si perchè troppe e tante volte l'ho letto quello che vi accenno, e troppe e tante volte da piegare il piccolo libro, da sforzarlo e averlo quasi distrutto......

“ E' difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sia, del mio cuore,

ciò che è stato sempre , prima d'ogni altro amore.......”

(Pier Paolo Pasolini – Supplica a mia madre in Poesia in forma di rosa)

Io non saprei esprimermi meglio di così, e non posso nemmeno commentare, tanto sciuperei di quel magnifico che è già stato da lui scritto..... “perchè l'anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù....(PPP).

Avete visto che in questo breve scorcio di pagine quante cose abbiamo potuto donare al nostro sapere, al nostro intelletto, al nostro vivere quotidiano, ebbene io vi lascio e proseguo da solo in questa “ricerca”....la gita in libreria è un grande e lungo viaggio che non sappiamo mai dove va a finire.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine ERREBI

martedì 22 settembre 2020

ROGIER VAN DER WEYDEN - LA DISCESA DALLA CROCE


E' assolutamente una delle opere maggiori che possano esistere ed è sicuramente una delle più emotive e emozionali che arte possa ottenere e l'uomo possa osservare. Non c'è riposo mentale e sospeso respiro a contemplare ma solo un immenso e continuo scorrere di sguardi su queste disperate figure e provarne contemporaneamente quel forte pathos che a loro è stato, con doverosa cura e maestria, impresso.

La discesa dalla Croce di Rogier Van Der Weyden è certamente l'apice del rinascimento fiammingo, è certamente il culmine di una pittura ad olio che soltanto un esperto dotato maestro come lui poteva raggiungere. Ed è proprio la facoltà di lavoro dell'olio che permette al Maestro la cura del dettaglio, il colore vivace e elaborato, la stesura fine tanto da formarne una superficie levigata, praticamente da ottenerne una massima definizione.

I personaggi sono tutti rivolti al processo di deposizione, l'attimo in cui il Gesù, da umano, è decisamente morto e il dolore, ancora umano, della madre e degli astanti che gli sono sempre stati vicini è impressionante, la Madonna è “finalmente” colta da un cedimento e un Giovanni sempre presente la sostiene insieme a un'altra donna, una Madre che soltanto lacrime possono scandire il suo acerrimo dolore, lacrime che Van Der Weyden ha così perfettamente disegnato e dipinto tali da sentirne il calore e l'umido. La Maddalena all'altro lato prostrata e in preghiera e Nicodemo che sostiene il Cristo, dietro, alle spalle. In questo scenario spiccano oltre i colori, i costumi doviziosamente rappresentati, sono costumi dell'epoca del Maestro, e colpisce ad esempio la veste perfetta e damascata in oro di Giuseppe d'Arimatea che sostiene i piedi di Gesù.

Il raggiungimento poi prodigioso è dato dalla colorazione dell'incarnato, spettacolare quasi da toccare, il Cristo è assolutamente luminoso.

E' un'opera su tavola a forma di T rovesciata, sicuramente facente parte di un trittico e racchiusa e protetta da sportelli, come di tradizione negli altari del Nord, e fu commissionata dalla Gilda Maggiore dei Balestrieri di Lovanio nel Belgio nel 1435 circa e installata nella Cappella di Notre Dame Senza Mura. Poi nel tempo ebbe notevoli proprietari e divenne così tanto conosciuta e famosa che moltissime furono le copie. Attualmente è visibile al museo del Prado a Madrid.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Roger Van Der Weyden – La discesa dalla Croce.

sabato 19 settembre 2020

CAMALEONTI


Siamo, forse, destinati a un destino sconosciuto e incomprensibile, a un futuro che ancora non ci appartiene e tuttavia ci spaventa, forse siamo destinati a perdere del passato ogni sua forma abituale e spargere nel nuovo un qualcosa che a noi ancora non appare. Siamo, forse, destinati a nascondere o dimenticare tutto quanto può essere emozionale o causarne tale sensazione, e forse vivere semplicemente senza crearsi ulteriori conflitti interiori. Siamo, forse in una camaleontica disgregazione da mutare pure il nostro aspetto e non conoscere più della bellezza l'esteriore e custodirla nell'io personale, siamo, forse, cambiando la superficie della nostra pelle togliendo inaspettatamente anche quello sottostante, e scoprendo, forse e/o magari, un volto nuovo o se non altro, un aspetto diverso e forse, spero, anche migliore.

Siamo, forse, alla fine di una lunga, quasi eterna generazione e non ne siamo capaci, intellettivamente e emozionalmente, di poterla capire.

Siamo, sicuramente, il meglio e il più sensibile che possa ancora rimanere, il futuro, almeno personalmente, non ci appartiene, siamo, sicuramente, ancora scudieri di un sentimento che si chiama amore.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web

mercoledì 16 settembre 2020

FRANCESCO JOVINE - SIGNORA AVA


Uno scrittore molisano, uno dei tanti che il dopoguerra si è portato dietro il senso del “dimenticato”, uno dei tanti che avevano portato avanti la libera cultura e avevano lottato per un regime che non soddisfaceva poi nessuno, non arricchiva tanto i nobili e impoveriva troppo i deboli, e una monarchia che viveva di tradizionalismo esagerato e reggeva sul popolo solo per “usanza” e “ scaramanzia”. Francesco Jovine , nato in un piccolo villaggio del Molise, racconta proprio di quel suo semplice e comune paese, le vicissitudini giornaliere di un popolo dedito al servilismo e ancora ancorato ai comandi di un nobile signore e della sua cerchia e poi sopra tutti il potere della chiesa espresso con i vari parroci e vescovi che scandivano la vita dei contadini con paure e superstizioni.

E' un verista Jovine e in questo Romanzo improntato nel periodo del regime borbonico, l'autore offre il meglio di quello che vede intorno a se, il clima che si respira quando lo scrive è uno dei più tremendi che l'Italia stia attraversando, tra il 1938 e il 1941, anni di paura, e la stessa paura che è insita in questo popolo anche nel periodo descritto. E' un libro che potremmo annoverarlo per incisività di descrizione e di portata emotiva al simile e più famoso “Gattopardo” e sotto certi aspetti per l'apporto sociale del popolo e per le loro sofferenze al “Cristo si è fermato a Eboli”, magari non ha la stessa profondità dei due nominati, ma Jovine è puro, è vero nella sua scrittura e nel vero e nel puro forse si è presi troppo da un fattore personale e emozionale.

Il titolo “ La signora Ava” è certamente tratto da una espressione molisana, “ o tiempo de gnora Ava” che sta a significare di un tempo lontano, ormai passato, quando la vita reale si mischiava con le leggende e le superstizioni.

Il libro nella prima parte descrive la vita quotidiana di Guardialfiera e della famiglia De Risio e da essi ne trasmette tutte le contraddizioni, le difficoltà, i costumi di un popolo contadino sfruttato e ridotto all'immobilismo sociale, dove non ci sono vie d'uscita e tutto deve proseguire nel “dovuto” rispetto dei nobili e nel “devoto” conseguimento degli ordini religiosi improntati sulla paura del trapasso e sulle antiche e radicate superstizioni. Vari sono i personaggi, e monotone sono le vicissitudini dello scorrere di vita di questo paese, uno dei tanti dimenticati dalla nazione e pure da Dio, perchè l'unico prete che davvero ha un poco più di carità cristiana è don Matteo cui si affidano i poveri abitanti del loco. Non manca una storia d'amore, un amore leggero pudico e al tempo stesso sbagliato, perchè anche l'amore è comandato, e il servitore di casa De Risio, Pietro Veleno, non può e non deve innamorarsi di Antonietta, perchè è deciso che sia Carmela che deve portare a nozze.

La seconda parte del libro ci porta alla rivoluzione, agli eventi di Garibaldi, a Masaniello, e comunque ancora a sottolineare di come un popolo così “allevato” possa capire e possa decidere di uno stato di cose, una rivoluzione in cui ci si trovano mischiati senza mai capirne davvero il valore, rimarranno ancora a comandare i ricchi e i preti.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: copertina del libro


lunedì 14 settembre 2020

PAOLO GAMBA - LA BATTAGLIA DEGLI ANGELI


Paolo Gamba è un artista pittore molisano del settecento, allievo del più famoso artista Solimena di Napoli, nato da famiglia povera a Ripabottoni, un piccolo paese nella provincia di Campobasso, tendenzialmente dedito a opere pittoriche e affrescate a tema religioso, infatti proprio nel suo paese natio, per la chiesa di Santa Maria Assunta, dipinse molte tele tra cui una Madonna del Rosario di San Rocco e anche vari affreschi, e altre e varie opere per la chiesa di Maria della Concezione. E' stato praticamente l'artista più ricercato nella sua regione e in quasi tutte le chiese troviamo o una tela o un affresco ed è proprio di uno di questi che oggi voglio esporvi.

Nella chiesa di San Francesco ad Agnone, una delle note cittadine molisane, appena entrati e guardando verso il cielo, sulla navata centrale, il Gamba ha affrescato uno dei momenti più tumultuosi che vengono narrati nell'Apocalisse al capitolo dodici, ovvero il combattimento tra gli Angeli fedeli e gli Angeli ribelli. Il Maestro ne costruisce uno scenario quasi realistico, che parte con la rappresentazione più sublime e alta nel cielo, del Dio seduto su un trono tra le nuvole dove un angelo sorregge la Croce a simboleggiare la passione del Figlio Gesù, un Dio che ordina ai battaglieri angeli di abbattere e liberarsi dai dannati, da coloro che hanno peccato di superbia, gli spiriti ribelli. Ed ecco che il Gamba presenta l'Arcangelo Michele armato di spada che si prodiga contro quei dannati, che al posto delle ali piumate spuntano ali da pipistrello a indicare la trasformazione demoniaca. E' un Arcangelo bello, con un'elegante vestigia militare fornita di corazza e con la spada che altro non è che una croce acuminata quasi a giustificare e enunciare il giudizio universale. Sotto di lui Lucifero personificato da un muscoloso uomo abbattuto sulle rocce insieme ad altri suoi simili. La caratteristica essenziale di questo affresco è l'intensità diversa di luce, una luce che in alto nel cielo risplende a scandire la luce divina, pulita e immensa, fino a offuscarla nel profondo degli abissi dove giace il demone vinto e senza speranza, il buio eterno.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Paolo Gamba – Affresco nella chiesa di San Francesco ad Agnone raffigurante la battaglia tra gli Angeli.

CASTELPETROSO (IS) E IL SANTUARIO DELL'ADDOLORATA


Il Molise.....quelli della mia non più giovane età avrebbero subito a ribattermi....Abruzzo e Molise...no il Molise da tempo è Regione autonoma e ben definita e seppur ancora tra le regioni meno conosciute e nominate, è una delle poche invece rimaste ancora integre nelle sue tradizioni, nella sua cultura contadina e montana, per non parlare dei suoi pescatori dove il bell'Adriatico bagna le sue coste. Molise è una piccolissima regione come entità geografica e territoriale, ma grande nelle sue opere, nei suoi paesi arroccati, nella sua rigorosa storia, nella sua naturalità di colline, di valli, di monti e di mare, il Molise si rispecchia nella sua più antica tradizione, la transumanza, dove ancora sono evidenti come cicatrici sulla pelle, i “tratturi, percorsi storici che univano i pascoli abruzzesi con quelli pugliesi. Molise una regione da scoprire e valorizzare ma da mantenere integra, perchè la sua bellezza sta proprio nella sua nascosta e riservata cura di se stessa.

E non mancano certo personaggi famosi, illustri e notori, partendo addirittura da un Papa, Celestino V ( Pietro Angelerio detto Pietro da Morrone) un umile e docile frate che subì le arroganze di un istituzione di Chiesa adita soltanto al potere e al denaro, e non dimentichiamo le bontà culinarie che essa ci offre e ci prende per la gola.

Visitare il Molise significa voler scoprire e rivalutare quello che molte regioni ormai hanno perso o dimenticato, la vera libertà di respirare aria pura, libertà di assaporare i valori del reciproco rispetto e amore in un contesto ancora salubre e non inquinato dall'invasione e invasivo turismo.

Io vorrei iniziare questo cammino da un piccolissimo borgo in provincia di Isernia , un borgo che ha antichissime origini e che in piccolissima parte detiene ancora qualche traccia, ma vorrei parlare di questo borgo soprattutto per la sua famosa e incredibile storia religiosa che si può benissimo accumunare a quella ancor più famosa di Lourdes in Francia, e che pure la struttura del santuario che vi vengo a nominare è molto similare a quello che si trova nel sopra nominato luogo francese.

Il borgo è Castelpetroso che deve il suo nome a un antichissimo castello costruito su pietre intorno all'anno Mille dove trovarono dimora i D'Angiò e dopo vari passaggi di proprietà è ora simbolo del paese, all'interno vi è un museo della civiltà contadina, questo a rimarcare quanto sopra esposto in riguardo alla regione, e anche un presepe molisano del cinquecento.

Il santuario è dell'Addolorata, dedicato appunto alla Madonna perchè nel marzo del 1888, due giovani contadine, Fabiana detta Bibiana e Serafina stavano vagando per la campagna in cerca di un agnellino che mancava nel gregge e che non averlo trovato gli avrebbe arrecato notevoli guai da parte del padre, la mancanza anche di un solo agnello significava un grave danno economico. Ad un tratto Bibiana scorse una luce immensa in una grotta e si avvicinò per capire da dove venisse, e fu colpita dalla visione della Madonna con il cuore trafitto da sette spade e le braccia aperte al cielo. Anche Serafina, che era rimasta più indietro, si avvicinò verso la grotta ma quando vi giunse la luce non c'era più. Ma dieci giorni più tardi, il giorno di Pasqua, la Madonna si presentò l'ennesima volta e fu così vista da tutte e due le contadinelle.

Vicino al luogo dell'apparizione fu costruito il Santuario che ebbe un lunghissimo periodo di lavori, su volontà del vescovo di Bojano, Mons. Palmieri, fino ad arrivare al 1975 quando il tempio finalmente fu consacrato da Mons. Carinci. Il Santuario è affidato alla comunità dei Francescani dell'Immacolata, frati e suore, che si occupano gli uni del servizio pastorale mentre le altre si dedicano all'animazione liturgica e alla catechesi dei pellegrini.

Il complesso architettonico è costituito da un insieme di architetture diverse, quelle del tardo Ottocento con il Gotico francese, e nonostante la sua relativa modernità purtroppo non possiede opere significative e rilevanti, la sua attrazione e notorietà è soprattutto dovuta dai fedeli.

L'ambiente in cui è sito è uno dei più spettacolari e tipici del Molise, eretto appositamente isolato in un interno di un bellissimo bosco dove domina i paesi di Gualdo e Castelpetroso.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Santuario dell'Addolorata – Castelpetroso (IS)

venerdì 11 settembre 2020

IL GATTO E IL TOPO


Vi ricordate la canzone di Branduardi, “Alla fiera dell'est”, un'antica filastrocca che lui ebbe il genio di musicare,? Ebbene questa che vi propongo oggi è una filastrocca analoga, una filastrocca popolare ricordata e menzionata in una raccolta di “Storie di Animali” da Walter de la Mare, uno scrittore inglese forse più famoso per il suo romanzo “ Ritratto di una donna in miniatura”.



IL GATTO E IL TOPO


Mentre un gatto e un topo giocavano nel granaio, il gatto strappò con un morso la coda al topo e questi lo supplicò di riaverla.


Ti prego micio restituiscimi la mia coda...

No caro amico topo, ti darò la coda se andrai dalla mucca e mi porterai un po' di latte.


Il topo veloce corse dalla mucca.


Mucca dammi del latte che darò al gatto che mi darà la mia coda

No non te lo il latte se non vai dal contadino a prendermi del fieno.


Il topo veloce corse dal contadino


Contadino dammi del fieno che porterò alla mucca che mi darà del latte che porterò al gatto che mi darà la mia coda.

No non ti do il fieno se non vai dal macellaio e mi porti un poco di carne.


Il topo veloce corse dal macellaio


Macellaio dammi della carne che porto al contadino che mi da del fieno che porto alla mucca che mi da del latte che porto al gatto che mi da la mia coda.

No non ti do la carne se non vai dal fornaio e mi porti un poco di pane.


Il topo veloce corse dal fornaio


Fornaio dammi del pane che porto al macellaio che mi da la carne che porto al contadino che mi da del fieno che porto alla mucca che mi da del latte che porto al gato che mi da la mia coda.

Ebbene ti darò del pane ma se ti trovo a mangiare nel mio magazzino ti taglio la testa.


Allora il fornaio dette del pane al topo che lo portò al macellaio che gli dette la carne che portò al contadino che gli dette il fieno che portò alla mucca che gli dette il latte che portò al gatto.......e il gatto finalmente rese la coda al topo!


Leggero mio riadattamento da “Il gatto e il topo” di Walter de la Mare su “Storie di animali”.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web

mercoledì 9 settembre 2020

MASSIMO TROISI - IL POSTINO


C 'è tanto bisogno di vita, di volontà di vivere e vedere questo film penso che ne sia la cura adatta perchè la vita torni a sorriderci, un film dove il grande Troisi dopo appena 12 ore da quando aveva terminato le ultime scene, ci lasciò, un Troisi che fino all'ultimo ciak, con la sua malattia, con il suo sguardo ormai lontano, con le sue cadenze nei movimenti tarati dalla malattia, un Troisi che ha lottato fino all'ultimo respiro, ovvero ha vissuto tutto quello che gli era dato di vivere, senza sprecare niente.

E comunque non è nemmeno un film a caso, il “Postino”, ci rende l'interpretazione drammatica di un grande comico e ce lo affianca a un personaggio che della poesia e della parola della vita ne ha sapute recitare e creare, ma soprattutto vivere, un Neruda/ Noiret indiscutibilmente superiori, il primo per la sua immane cultura e profondità, l'altro per la perfetta recitazione.

Di questo film non importa la trama, si vive dei loro reciproci dialoghi improntati sulle metafore, sulla sorpresa dell'umile postino che “beve” sapienza dal grande poeta, e del quale incantato se ne servirà pure nel rapporto smorzato con la sua donna, si farà scudiero di un popolo umile di pescatori di un'isola che sta morendo, i tempi sono cambiati.

Ho pensato a questo film proprio per la forza prorompente che ha nello stimolare a vivere,nel far capire che niente ha davvero fine e che bisogna sempre ricominciare anche se diversamente, e chi meglio di Troisi in quel preciso momento poteva parlare di vita!

Un film che gli è valso varie nomination all'Oscar e di cui uno strappato, per la colonna sonora, drammatica, di Luiz Bacalov.

Sono impresse nella celluloide, eterne in chi lo ha visto o avrà occasione di vederlo, le smorfie di Troisi da cui traspariva sofferenza, il suo sguardo provato e il volto incavato dal male che rode, un Troisi comico che pare sorrida alla morte, quasi a fargli una SMORFIA.


Dal film:

Mario/Troisi rivolto a Neruda/Noiret:

A me mi piaceva pure quando avete detto “ sono stanco di essere uomo”, perchè è una cosa che pure a me mi succede però non lo sapevo dire....


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Locandina del film

martedì 8 settembre 2020

MICHELANGELO BUONARROTI - CRISTO DI SANTO SPIRITO


Erano gli ultimi anni del secolo 1400, e la famiglia Medici, che fino allora aveva dominato e regnato in Firenze, dovette addirittura fuggire all'improvvisa e violenta rivoluzione di un frate di San Marco, il Savonarola, una rivoluzione religiosa che arrecherà al popolo una mistica rivalutazione del tutto, un sacrificio enorme a controbattere le facilonerie e lussi della allora Chiesa.

In questa “innovazione” vi si trova Michelangelo Buonarroti, che già prediletto di Lorenzo il Magnifico, si trova a dover trovare anche lui riparo e viene accolto benevolmente in Santo Spirito dai frati Agostiniani e il luogo è uno dei più appropriati per il Maestro in quanto si respira aria di umanesimo, di cambiamento, si pensi che è presso di loro che viene segretamente tenuto in custodia il Decamerone, opera di Boccaccio che era stata posta all'indice, ed è qui che troverà quella pace interiore e quella meravigliosa tranquillità di operare e pensare seguendo il ritmo devoto dei frati, le loro preghiere, il loro scorrere quotidiano.

Dopo circa un anno, Michelangelo troverà altri luoghi dove andare, ma prima di lasciare questo posto lascia in omaggio un'opera scultorea in legno di tiglio ( un legno considerato sacro), una delle sue prime opere, allora il Maestro non aveva che diciotto anni, e costruisce un magnifico Cristo in croce per l'altare maggiore della Chiesa.

Ma nel tempo, poi soprattutto dopo il concilio di Trento, dove moltissime chiese hanno avuto una notevole rivoluzione di struttura, il crocifisso viene perso o comunque non più riconoscibile e rintracciabile, ne sappiamo della sua esistenza solo perchè il Vasari ne fa nomina nelle sue “Vite”.

E' l'anno 1962, una studiosa, Magrit Lisner, si trova in Santo Spirito per una ricerca e un censimento dei Crocifissi toscani e nel corridoio nel convento che porta al Capitolo intravede un crocifisso ligneo, ridipinto, e ne intravede la preziosità. Farà allora intervenire le Belle Arti, il Crocifisso verrà ripulito, restaurato e riportato a nuovo per avere poi la definitiva scoperta che trattasi davvero del magnifico Cristo del Buonarroti. Dopo aver trascorso un periodo nel museo Buonarroti, nei primi anni del 2000 il Cristo ritorna in Santo Spirito dove trova sede nella Cappella Barbadori in sacrestia.

E' un'opera che a parere mio non ha eguali, è un Cristo particolare, eccelso, gentile, leggero, sacro e al tempo stesso umano, il giovane Michelangelo ha esposto in questa raffigurazione tutta la purezza e la religiosità, tutta la delicatezza e la sottigliezza delle membra ( si pensi che nel convento il Maestro ebbe modo di poter analizzare , su permesso dei frati, i corpi morti che venivano dal vicino Lazzaretto), ma soprattutto ha dato a questa opera il fiato e la reale passione e remissione del Gesù, un fiato e una remissione che noi che abbiamo la possibilità di poterlo ammirare ne sentiamo persino l'alito e il brivido. E' un'innovazione artistica, la postura del Cristo, ovvero la torsione del busto rispetto alle gambe che era assolutamente assente prima dell'Umanesimo, ed è di una perfezione anatomica che rabbrividisce l'animo a guardarlo tanto pare vero e reale. Una pecca artistica è la sproporzione della testa un poco ingrandita sul resto del corpo, ma è una sproporzione voluta, non affatto erronea, Michelangelo sapeva che il Crocifisso sarebbe stato posto a circa quattro metri di altezza e da chi lo avesse visto dal sotto, il tutto sarebbe rientrato in una armoniosa proporzione ottica che ne avrebbe esaltata la perfezione.

Il Cristo è nudo, ovvero Michelangelo stesso lo ha fatto nudo, già pensando che poi lo avrebbero ricoperto con un velo( e in effetti era avvenuto così ma il velo è andato perduto), ma lo ha voluto tale perchè era uomo e come uomo, e non come Cristo, era morto.

Una nota: Si pensa che il Maestro abbia utilizzato come modello un giovane nobile della famiglia Corsini, che morì proprio nel suddetto Lazzaretto.

Il Cristo è bello, un bello non effimero ma un bello che ha profondità nella religiosità di Sant'Agostino come dice egli stesso nel salmo 44 (Enarrationes in psalmos 44,3):

“…...è bello dunque in cielo, bello in terra, bello nelle braccia dei genitori, bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell'invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte, bello nell'abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello nella croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo.”


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Michelangelo Buonarroti – Cristo di Santo Spirito

martedì 1 settembre 2020

RAFFAELLO SANZIO - L'ANDATA AL CALVARIO ovvero SPASIMO DI SICILIA


E' l'anno di Raffaello, ed è un anno che purtroppo non gli ha potuto rendere gli onori come avrebbe voluto, ma il Maestro certo non ha bisogno di ulteriori apprezzamenti, tanto ne è stato invaso da sempre e ne sarà pure nel tempo a venire, e allora come non rinnovare una delle sue tante magnificenza che nonostante la sua improvvisa e giovane morte, seppe donarci copiose e stupefacenti.

L'opera che presento oggi è una tavola di oltre tre metri di altezza per due di larghezza che gli fu commissionata addirittura dal monastero olivetano di Santa Maria dello Spasimo di Palermo, mentre il Maestro era ancora a Roma alle dipendenze del Papa Leone X ,mentre stava affrescando le Logge, ma non rifiutò la commessa e riuscì a costruire una delle sue tante delicate e appassionate scene della storia di Cristo, l'Andata al Calvario che poi con il tempo è divenuta più conosciuta come lo Spasimo di Gesù.

Una volta terminato il lavoro lo inviò via mare ma una tempesta disastrosa fece affondare la nave e quando si credeva che la tavola fosse perduta, ecco che appare integra nel porto di Genova. Miracolosamente niente era stato deteriorato o rovinato e tanto fu nominato l'evento che quasi tutta la popolazione genovese accorse al porto per vedere da vicino quel prodigio e chissà che non ne traesse anche beneficio benedetto.

Anche Palermo seppe del ritrovamento e dovette persino ricorrere alle interferenze del Papa per poter riottenere quello che poi gli competeva.

Finalmente la tavola venne deposta in Santa Maria ma già nel 1661 venne ceduta a Filippo IV di Spagna da parte del vicerè del Regno di Sicilia.

Ma sarà Napoleone, avido delle opere d'arte, che la porterà a Parigi e qui verrà trasformata in tela, poi comunque ha ritorno in Spagna dove tutt'ora si trova in mostra al Muso del Prado.

La composizione del dipinto è un insieme di personaggi, ognuno con un suo pathos particolare, ognuno impegnato nel suo daffare, e in ognuno ci possiamo immedesimare e di essi sentirne i sentimenti tanto sono magistralmente raffigurati e dotati di una accattivante e realistica espressione visiva.

Decisamente drammatica e intensa è la rappresentazione del Cristo che si avvia al Calvario, è appena caduto per il peso della croce e la sofferenza dei linciaggi subiti, che in fare quasi infantile e abbandonato chiede con tutto il suo cuore e tutto il suo spirito l'aiuto alla Madre che altresì ne comprende la sua richiesta e risponde con un accorato e profondo senso di impossibilità e incapacità di poterlo aiutare, Raffaello ha riportato nel volto della Madonna l'atroce sentimento di una madre che nonostante la grande volontà di poter aiutare il proprio figlio, si trova incapace di poterlo fare ed è proprio questa impossibilità che apre una ferita enorme nel suo petto e nel suo cuore, un cuore di madre, madre terrena!

Raffaello al di sopra della sua delicatezza e della sua gentile rappresentazione dei personaggi ha saputo coglierne il sentimento e ha saputo sempre trasportarlo al punto tale che ogni “lettore” vedendo le sue opere, lo ha saputo leggere per quello che era. I colori vivi, i paesaggi gentili, gli sguardi e l'espressioni reali, ha fatto si che i suoi dipinti oltre tutto avessero cuore e passione, senza strafare e esaltare, ma soltanto cedere al reale.

NOTA: Tanta è stata la notorietà e la bellezza di questa opera che non si contano le innumerevoli copie che ne sono state fatte da grandi artisti di sempre ( Bottega di Polidoro di Caravaggio, G.P.Fonduti, Giuseppe Sirena,R. Politi, J.Bassano, Marco La Vecchia e altri ancora)


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Raffaello Sanzio – L'Andata al Calvario