giovedì 30 luglio 2020

JEAN DE LA FONTAINE - GLI ANIMALI MALATI DI PESTE

Non si può non pensare di tornare al classico, quando si parla di favole, perchè è dal classico che se ne maturano poi tutte le altre, revisionate e tradotte, riesumate e scoperte, rielaborate e narrate, ebbene in questo fare allora non si può che non pensare a colui che delle favole ne fece un “mito” di lavoro e di astuto delicato e sofferto lavoro, Jean de la Fontaine.
Rielaborò e rintracciò le antiche narrazioni di Esopo e ne trasse una sua particolare e incisiva narrazione, dovutamente tutta in versi e con monito (morale) ben distinguibile dedicato all'uomo e al suo vissuto.
L'inizio de “Les Fables” è una dedica al Delfino di Francia della quale io vi riporto una piccola parte perchè si comprenda che non è riferito soltanto al Sovrano ma ad ogni uomo vivente:

“ Canto gli Eroi progenie alma d'Esopo
di cui l'istoria, anco se falsa, in fondo
di verità nasconde alti concetti.
Tutto parla nel mio novo poema,
il can, la volpe e fin parlano i pesci;
ma ciò che l'uno all'altro gli animali
dicon fra lor, di te, lettor, si dice.........”

GLI ANIMALI MALATI DI PESTE

Pare che il Cielo, per castigare le malefatte della terra, un giorno inventò un male, terribile e fatale, da mettere tanta paura e che tanti morti recò a riempire i cimiteri, praticamente la Peste che tutti gli animali morivano a cento e cento senza far distinzione di razza o di colore.
Nessuno ormai aveva voglia e volontà di vivere in queste condizioni, tanto che ogni cibo da catturare tanto faceva fastidio e rimaneva in gola da non digerire, e con il fuggire di ogni uccello o libero animale fuggiva anche l'amore e pure il diletto di esso e di continuare.
Fu il Leone allora che tenne consiglio e radunò tutti gli animali:
“ Amici miei, il Cielo ci ha dichiarati colpevoli del nostro agire quotidiano, e ci è stato inflitto questo grande castigo, io penserei che, essendo tutti colpevoli di ogni fare, dovessimo trovare tra di noi, colui che più di tutti ha colpe da scontare, così da essere sacrificato così che il suo sangue versato possa portare ad ottenere la nostra guarigione.
Ora perciò ad ognuno è chiesto di fare esame di coscienza, e ammettere apertamente le proprie colpe e le proprie malefatte, io sono pronto a esporre le mie come quella volta che fui attirato da pura ghiottoneria di un gregge che mi trovai davanti, poveri innocenti agnelli, e tanto fu la mia briga che ci presi la mano e feci fuori anche il pastore, certo è grave ma prima vorrei sentire ciascheduno a essere sincero.che abbia da confessare ben più grossi peccati.”
“ Sire” disse la Volpe “ un re buono come voi siete non ne esiste al mondo, che significano questi scrupoli solo per aver abboccato qualche montone, non vedo nessun peccato per avere digerito questa razza di minchioni, anzi se devo essere sincero sono sicuro che fu un grande onore, per loro, sentirsi rosicchiato dai vostri nobili denti, quanto al pastore, in verità, avrebbe meritato di peggio, visto che osava sentirsi il re sopra le bestie, e re non lo era affatto.”
Fu uno scrosciare di applausi e di approvazione, e tanto fu l'effusione che non si badò certo a quel “pelo nell'uovo” degli altri animali, Tigri e Orsi e pure Cani sembrò che quel che fino ad allora avevano sbranato fosse cosa da nulla o quasi, e tanto si arrivò a biasimare da farne il loro fare cosa da Santi e da baciar le mani.
In ultimo s'alza a confessarsi un povero Asino, che dice del suo il più accorato vero, e con umile e sentito pentimento narra di come un giorno, andando in un fresco praticello di un monastero, fu colto non sa bene se da ghiottoneria, fame o tentazione del demonio, che si mise a brucare di quell'erba tenera, e fu perciò cosa rubata, ma ne prese soltanto una boccata.
Fu un gridare unico di forte anatema, di cosa di così grande peccato e ignominia, rubare l'erba di un prato del Signore, di un monastero, e fu dichiarato appunto che questi era il peccato grande che si doveva punire, che l'Asino venisse sacrificato perchè è lui la colpa del castigo che era stato inferto.
E come disse il giudice: “ La morte per si orribile disfatto era ben poca cosa.” E l'Asino fu ammazzato.

La morale ve la riporto come la scrisse il grande favolista ( e che è sempre e enormemente attuale)


“ Della giustizia quando siede al banco,
sempre il potente come giglio è bianco,
ma se a seder si pone il poveraccio,
è un sacco di carbone.”


Mia rielaborazione di una favola di Jean de la Fontaine dal libro “Les Fables”

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Gustave Dorè - Animali malati di peste

martedì 28 luglio 2020

FILIPPINO LIPPI - MADONNA CON BAMBINO E SAN GIOVANNINO FRA SAN MARTINO VESCOVO, SANTA CATERINA D'ALESSANDRIA E COMMITTENTI ovvero PALA NERLI

Come ben sapete, almeno coloro che mi seguono in queste piccole e semplici nozioni d'arte, mi trovo spesso a visitare Firenze, innanzitutto per la vicinanza alla mia città e poi per legami familiari, e in queste visite non manco mai di cercare di approfondire la mia umile conoscenza artistica pittorica , e stamani vi voglio portare in una delle più belle e interessanti chiese che Firenze possegga, la Basilica di Santo Spirito, nell'omonimo borgo, oltr'Arno come direbbero i fiorentini.
Un giorno dovrò esporre la magnificenza di questa bellissima chiesa, che lo stesso Leonardo ne amava fare studi, Michelangelo la adorava e il Bernini la dichiarava la chiesa più bella del mondo, ma oggi voglio attenermi al solo tema della pittura, e in questa basilica non mancano le opere di grande prestigio, girare tra le innumerevoli cappelle ognuna con un'apposita opera pittorica voluta dai proprietari delle cappelle stesse e commissionate ai più importanti e noti pittori del periodo in cui furono fatte tali richieste, è come attraversare uno dei corridoi più lunghi e sontuosi di un importante museo che potrebbe essere gli Uffizi o il Louvre. E' difficile anche potersi non soffermare e ammirare, perdersi in queste magnificenze e accorgersi che poi sei rimasto in quello stupendo complesso, che è Santo Spirito, per un cospicuo periodo di tempo, tanto da meravigliartene. L'opera di cui oggi voglio parlarvi è di Filippino Lippi, figlio del non meno famoso e importante, padre Filippo Lippi, ed è un'opera che gli fu commissionata dalla famiglia Nerli, e infatti è collocata nella omonima cappella, nell'anno della morte di Tanai (Jacopo) Nerli.
Raffigura la Madonna con il Bambino e San Giovannino fra San Martino Vescovo, Santa Caterina d'Alessandria e i due committenti.
La maestosa pala, inserita in una splendente e sontuosa cornice, è datata intorno al 1494, 1498, anno appunto della morte del Tanai e rappresenta appunto un episodio, uno dei più importanti, della vita del Nerli.
In data 5 novembre del 1494 Tanai Nerli fu inviato, insieme ad altri quattro ambasciatori fiorentini, a trattare la pace con Carlo VIII di Francia, il governo fiorentino tentava un'ultima ma importante mossa per porre fine alla lunga e penosa invasione. Nella pittura, sullo sfondo dietro le figure in primo piano della Madonna e i Santi, notiamo appunto l'accurata rappresentazione di una strada cittadina con in primo piano il Palazzo Nerli, sito nel borgo di San Jacopo, e il Nerli stesso sulla soglia di casa in vesti sontuose d'ambasciatore, accompagnato da un servo armato e con un cavallo ben bardato, che ritornato dall'impresa, saluta la moglie e il figlio. In lontananza si nota la porta di San Frediano dalla quale il Tanai si presume dovette passare al ritorno da Pisa, dove aveva incontrato il Re.
La rappresentazione dei Santi è dovuta per carattere sempre iconografico, infatti il Tanai entrò in Firenze 11 novembre del 1494 e cioè per la festa di San Martino, che era vescovo di Tours e patrono della Francia, mentre l'accordo di pace con Carlo VIII fu firmato sempre nello stesso anno ma il 25 novembre, giorno dedicato a Santa Caterina d'Alessandria, coincidenze che nella pala trovano conferma con l'immagine e la rappresentazione del piccolo Giovannino.
Santa Caterina d'Alessandria accompagna e presenta al cospetto della Madonna, la moglie del Nerli, Nanna Nerli figlia di Gino Capponi e zia dell'ancor più noto Pier Capponi per il monito che seppe rispondere alle iniziali pretese del re Carlo entrato a Firenze: “ Voi suonerete le vostre trombe, e noi suoneremo le nostre campane”.
La pala ha un'accesa tonalità di colori e una brillantezza di luce propria che risalta sul loco dove è affissa, che già da lontano se ne percepisce la presenza, basti pensare che comunque è tornata da pochi anni da un lungo e accurato restauro che ha portato alla luce anche nuovi dettagli che precedentemente non erano più visibili, come la luminosità del paesaggio fiorentino e la lucentezza delle vesti del Tanai.
Una nota: gli angioletti in alto, ai lati degli archi centrali, tengono in evidenza gli stemmi della famiglia Nerli

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web

giovedì 23 luglio 2020

IL FAVOLISTA BABRIO (II d.C.)


L'autore di queste brevi favole che propongo da me rilette e rivedute, si presume che sia vissuto intorno al II secolo d.C., è stato autore della prima raccolta in versi di tradizione greca e visse in Siria, fu un grande e famoso favolista e spesso le sue opere erano dedicate a un certo Branco, figlio del re Alessandro, per cui si è pensato anche che Babrio, l'autore, potesse essere anche un pedagogo. Scrisse in Greco e pare avesse discendenze da famiglie romane.

IL TOPO E IL TORO

Un piccolissimo e furbo topo un giorno morse un grosso e iroso toro, che una volta sentito il male, rincorse il poveretto con l'intento di schiacciarlo e ucciderlo.
Ma il topolino, essendo più piccolo e più veloce, riuscì ad entrare nella sua piccola tana, attraverso un buco in un muro e il toro inferocito, nonostante tentasse con colpi assestati con le sue poderose corna contro quel muro per poter entrare, finì spossato e cadde sulle ginocchia e si addormentò.
Il topolino allora volle mordere di nuovo il toro, che si svegliò ancora inferocito ma non sapeva cosa fare, tanto che il piccolo topo rivolgendosi a lui gli disse:
“ Chi è grande, non sempre è forte; in alcuni casi, piuttosto, il piccolo e l'umile sono dotati di forza”.

I BUOI E I MACELLAI

Una volta i buoi presero una cruenta decisione , di uccidere i macellai perché il mestiere che praticavano era molto ostile nei loro confronti, e così decisi si riunirono e si prepararono per la grande battaglia affilando le loro corna. Ora tra questi c'era un anziano bue, che nella sua vita aveva arato non si sa quanta quantità di terra, e disse agli altri:
E' vero che i macellai ci tagliano le carni con mani esperte ma ci uccidono senza tormenti inutili, se cadiamo nelle mani di uomini inesperti, moriremo due volte. Tanto ci sarà sempre qualcuno in grado di macellarci, anche se ci liberiamo dei macellai.
(La morale dice che chi è desideroso di fuggire un pericolo imminente, deve fare attenzione a non finire in una situazione peggiore)

L'ARABO E IL CAMMELLO

Un mercante arabo, dopo aver caricato il proprio cammello, gli chiese se preferiva prenderà la strada in salita o quella in discesa. L'astuto cammello subito rispose:
“Perché, il sentiero pianeggiante è forse bloccato?”.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Busto di Babrio

lunedì 20 luglio 2020

JACOPO CARRUCCI DETTO PONTORMO - L'ANNUNCIAZIONE

E' il sogno di tanti e molti lo hanno avverato, e altri, come io del resto, di questo sogno non sono mai sazio e difficilmente placo il mio desiderio, è il sogno di vedere Firenze e tutto quel Rinascimento che ti assale e ti completa anche soltanto passeggiando per le sue strade, e non bastano gli Uffizi, il Palazzo Vecchio, il Palazzo Pitti e potrei continuare per ore e ore a nominare luoghi e cose da vedere e rivedere, ammirare e in esse tuffarsi in un innocente oblio.
Ma io sono anche del parere che in tutto questo “sfarzo” di arte e cultura basterebbe anche un solo posto, un luogo tranquillo che non è invaso dal turismo sfrenato, dall'obbligato selfie con un'opera d'arte a testimoniare che “ ci sono stato” , ma che nel suo piccolo e discreto luogo contiene tutto quanto può esserci di subliminale nell'espressione artistica di tutti i tempi.
Sto parlando della piccola Chiesa di Santa Felicita, oltrarno a pochi passi dopo aver attraversato il ricco e rumoroso Ponte Vecchio e in questa, così tanto discreta e umile da non notarla se proprio non ne conosciamo la presenza, c'è una cappella appena entrati, sulla destra che se avete una piccola moneta avrete la possibilità di poterla illuminare e se siete coscienti di quello che vedrete, potrete anche non impressionarvi più di tanto, ma comunque resterete sempre sopraffatti da si tanta bellezza.
Sto parlando della Cappella Capponi (già Barbadori) dove su commissione e volere di di Lodovico Capponi, tra il 1526 e l529, Pontormo vi dipinse la sorprendente tavola con la Deposizione, che di per se il vedere e concepire umano supera l'impossibile, sul soffitto gli affreschi dei quattro Evangelisti ( questi, pare con il contributo di Agnolo Bronzino) e sulla parete est l'Annunciazione.
Oggi voglio parlarvi proprio di questo affresco che nei tempi non ebbe molto fortuna, basti pensare che proprio per volontà di Orazio Capponi, intorno al 1620, fece costruire a metà dell'affresco un tabernacolo di pietre dure che racchiude “ Il ritratto di San Carlo Borromeo” con una cassetta per le reliquie e fu aperta una vetrata di Guglielmo di Marcillat, che danneggiarono notevolmente l'affresco. Ma la storia non dava tregua a questa opera e infatti fu invaso dall'acqua nella terribile esondazione dell'Arno del 1966. Fu staccato e poi nel tempo restaurato e da alcuni anni, finalmente, gode di tutta la sua spettacolarità.
Il Pontormo è risaputo, fu un innovatore e anche abbastanza “stravagante”, (così lo definiva il Vasari) e anche in questo affresco non si smentisce.
Posiamo subito lo sguardo all'angelo, involto da una soffice veste di caldo arancione, riempita dall'aria in quanto la figura ancora è sospesa e non ha toccato piede sul terreno, il suo volto, in tre quarti (già di per se un precedente per la pittura barocca) dona all'eterea ma sorprendentemente umana figura, tutta la gentilezza e la delicatezza nonostante porti una notizia che non ha eguali nel tempo e nel mondo, e la deve dichiarare a un'altra figura, giovane e innocente, serena e leggera come il suo spirito e la sua anima, la giovane Madonna che il Pontormo ha raffigurato mentre sta salendo alcuni scalini di pietra serena, ché distolta dal leggero richiamo si volta con assoluta curiosità, non affatto spaventata, soltanto stupita che sia richiamata, e in questo atteggiamento semplice e naturale Pontormo ha voluto chiaramente “umanizzare” la scena, da farla apparire un semplice dialogo di due persone che non si conoscono, due figure di tutti i giorni, un semplice richiamo per una notizia che ancora non se ne conosce la forza e la grandezza.
Il Pontormo dipinse in questa cappella senza mai far entrare il committente a vedere come procedevano i lavori perchè “non gli fusse da niuno rotta la testa” ma quando i lavori furono terminati e tutte le opere furono mostrate “ella fu finalmente con maraviglia di tutta Firenze scoperta e veduta” (così riporta il Vasari).
Mai più fu eseguita una così pulita, delicata, semplice, chiara e umana Annunciazione, che a mio parere ( e forse sono di parte in quanto ammiratore eccelso del Pontormo) la dichiaro la Più Bella.
Una nota: La cappella Barbadori – Capponi fu costruita intorno al 1420 per volontà appunto di Bartolomeo Barbadori il quale affidò i lavori di costruzione a Filippo Brunelleschi che già in quel periodo era impegnato per la costruzione della meravigliosa Cupola di Santa Maria del Fiore.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Jacopo Carrucci detto Pontormo - L'Annunciazione

martedì 14 luglio 2020

LUCA DELLA ROBBIA - MADONNA COL BAMBINO

Difficilmente mi trovo a esporre un'opera d'arte scultorea, il motivo è dato dalla mia poca conoscenza in materia e dal mio poco apprezzamento dell'opera in se stessa, proprio perchè ignorante e non conoscitore di tale meravigliosa “maniera” di fare arte. Ma spesso viaggiando per le campagne e le città medievali della mia Toscana, trovo in qualche chiesa, sotto un porticato, su muri di palazzi importanti, e altri svariati posti eccelsi, immagini in ceramica invetriata, ovvero quel particolare modo di lavoro che impreziosisce la terracotta rivestendola di un candido smalto ceramico, e spesso ne rimango stupito e rapito da tale bellezza e delicatezza dell'immagine proposta, solitamente figure da devozione, come madonne, angeli e bambinelli.
L'artista padre di tutto ciò fu Luca della Robbia, colui che nella sua “fucina” inventò questo caratteristico modo di lavorare la terracotta e impreziosirla, una maniera che rimase a suo dominio familiare per oltre due secoli e che ancora oggi , nonostante le preziosità delle più notorie fabbriche di ceramica, non si è potuti raggiungere a scoprire come tale magnificenza sia stata possibile.
L'opera che vi propongo è una delle prime e assolutamente, a mio avviso, da ritenersi un emblematico resto di quanto la bellezza e la dolcezza, la serenità e la delicatezza si possono tradurre in immagine lavorando una materia alquanto difficile da farla apparire sottile e fragile, e darne quella lucentezza e splendore.
La Madonna col bambino di Luca della Robbia è tutto di quanto finora ho asserito, la Vergine è di una bellezza unica, un volto ovale incastonato in un velo leggero quasi a proteggerla e a divenirne una mandorla racchiusa nel suo guscio, una Vergine che con assoluta semplicità e maternità ci indica un'iscrizione alla base dell'altorilievo, invetriato di blu cobalto, che altri non è che un versetto del Magnificat, l'inno che la stessa, nel Vangelo di Luca, invocò a Dio dopo aver saputa la notizia dell'essere in attesa del figlio Gesù. Il valore, oltre quello artistico, di questa opera è anche quello soprattutto morale, basti pensare che tale opera si trovava su un altare della chiesina delle Donne, interna all'ospedale degli Innocenti a Firenze, in prossimità di una sorta di acquasantiera dove venivano deposti i bambini abbandonati. L'ospedale degli Innocenti era il luogo dove i bambini , frutto di maternità impreviste ma il più delle volte non voluti, venivano abbandonati e qui presi in custodia e allevati con la sorta di poterne fare un giorno uomini degni come tutti di avere una vita, quella che a loro era stata quasi vietata.
Ed ecco che il valore di questa immagine spopola su ogni relativa bellezza esteriore, ma ingigantisce il bello interiore e sacro, mistico e profano, sublimando l'importanza della vita stessa.
La Madonna sorregge il bambino Gesù quasi in una posa di offerta a coloro che lo osservano, il bambino è presentato nudo a sottolineare il mistero dell'incarnazione, e srotola un cartiglio dove sono impresse le parole “Ego sum lux mundi”, parole che invitano a contemplare lo splendore di Cristo, parole che si trovano nel Vangelo di Giovanni, il Cristo che altro non è che la luce vera, la speranza.
L'opera è di un candore assoluto che soltanto il Della Robbia seppe offrire e donare con queste opere, prima Luca, il capostipite della famiglia e poi l'erede, il nipote Andrea.
Una piccola, ma non meno importante nota, è da sottolineare che la conoscenza delle prime opere del Della Robbia la dobbiamo al grande Brunelleschi, che essendone un suo grande estimatore, e pure grande e vecchio amico, lo volle in ogni suo cantiere, cominciando da Santa Maria del Fiore, per non parlare proprio dell'Ospedale degli Innocenti, dove sotto il lungo porticato del Brunelleschi sono affissi medaglioni di queste ceramiche figuranti putti in fasce, allusivi ai trovatelli del luogo nominato.
Leonardo da Vinci, nel suo Trattato della Pittura, menziona il Della Robbia e le sue opere, perchè tale arte non può annoverarsi come scultura, ma una tecnica capace di rendere la pittura “eterna”, e dobbiamo asserire che aveva davvero ragione.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Luca della Robbia – Madonna col bambino