martedì 27 dicembre 2022

LORENZO LOTTO - ADORAZIONE DEI PASTORI


San Francesco d'Assisi asseriva che:

“ Chi lavora con le sue mani è un lavoratore,

chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano,

chi lavora con le sue mani, la sua testa e il suo cuore è un artista.”

e l'opera pittorica che propongo oggi è dettata davvero con il cuore, perchè mai nessuno ha raggiunto tale profondità umana e sublime tenerezza nel proporre una consueta “Adorazione dei pastori” come ci è riuscito il Maestro Lorenzo Lotto.

La scena è classica, ovvero ambientata in una stalla come vogliono le scritture, il fondo scuro dove si intravedono le lunghe orecchie dell'asino e un accenno tra le ombre, il bue,da una piccola finestra si intravede la poca luce lunare, una luce che basta a illuminare il centro del dipinto, la scena principale con la Madonna avvolta in un manto azzurro come il cielo notturno, San Giuseppe appena defilato dietro Maria e due angeli di cui uno rivolto all'osservatore. Ed ecco la particolarità dettata dal cuore del Maestro, il bambino Gesù, non propriamente divino ma umanizzato, con la frenesia e curiosità che appartiene a tutti i bambini del mondo, accarezza e osserva un agnello che gli viene avvicinato da uno dei due pastori. E' un gesto che incanta e tocca il cuore a chiunque osservi questa opera pittorica, tutti sono proni a porre devozione e preghiera al bambino ma il Lotto ci distoglie con questo innocente e grazioso gesto, che poi del resto pare che sia l'unico movimento in uno scenario quasi fermo e stabile, quasi da posa fotografica.

Ma al di la dell'immenso e sublime trasporto emozionale, il Maestro ci ha fornito pure un insieme di simbologie tali da rileggere approfonditamente l'opera stessa. Il gesto del bambino che accarezza l'agnello altri non è che la chiara accettazione del Cristo del suo destino, ovvero della Passione e del sacrificio sulla croce (...verrà l'Agnello di Dio), croce che si simbolizza proprio nella piccola finestrella della stalla.

La grande cesta, la mangiatoia, dove , è steso nel puro manto bianco, il Bambino ha una forma diversa dal solito, è rettangolare , proprio a ricordare un sarcofago e la Madonna stessa è dentro inginocchiata quasi a voler condividere la sorte del suo figlio.

Nelle mani composite a pregare di Maria, appare un anello, è un preciso riferimento al Santo Anello nuziale che vuole gli sia stato donato da Giuseppe nel giorno del loro matrimonio e leggenda vuole che questo anello sia quello tenuto solidamente conservato nella cattedrale di Perugia.

Gli angeli alle spalle della scena principale tengono una mano sulla spalla dei due pastori con il preciso monito che la fede di ogni uomo deve essere sostenuta da Dio.

I due pastori (o finti pastori in quanto sotto le casacche indossano camice bianche e farsetti di velluto, abiti appunto signorili) , identici nella fisionomia o se non altro con affinità parentali, si presume siano i committenti dell'opera stessa, ma rimane dubbia la conoscenza, in quanto taluni presumono siano i fratelli Baglioni, nobiluomini perugini che avrebbero incontrato il maestro in uno pellegrinaggio a Loreto, ma si presume anche che potrebbero essere i fratelli Gussoni di Venezia, perchè la data dell'opera corrisponderebbe al periodo in cui il Lotto si trovava in quei luoghi veneti.

Ma lasciamoci ancora trasportare da questa dolce e innocente visione, un bambino, il bambino Gesù, che nel nobile gesto di accarezzare l'animale ci dona quella forza interiore di quanto anche noi umani, come lo è Lui in quel preciso momento in cui è nato, potremmo amare incondizionatamente e credere nella felicità della nostra anima con tutta l'innocenza e purezza di un bambino appoggiati da una grande fede.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Lorenzo Lotto – Adorazione dei pastori ( Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia)

lunedì 7 novembre 2022

ALBRECHT DURER - AUTORITRATTI


Talvolta si guardano le opere d'arte senza minimamente pensare che esse sono state create in un determinato periodo e con determinate regole o soltanto modi di fare pensare e agire, che naturalmente distano dalla nostra attualità in maniera esorbitante, e per questa mancanza noi interpretiamo quello che vediamo con la semplicità del nostro pensiero odierno e talvolta, e direi spesso, travisiamo il vero concetto dell'opera stessa e ne diamo anche un valore superficiale e talvolta quasi effimero. Perchè questa premessa, perchè oggi volevo esporre l'importanza del ritratto e soprattutto dell'autoritratto di un grande artista della scuola rinascimentale tedesca, ovvero Albrecht Durer.

I pittori tedeschi dal '500, influenzati dal prodigioso movimento artistico rinascimentale italiano e dalla pittura fiamminga, finalmente abbandonano il gotico e si avvicinano alla rappresentazione non più tradizionale, di santi e soggetti religiosi, ma di paesaggi, architettura e ritratti.

Nel Medioevo, l'artista in quanto artigiano, era soggetto a dover interpretare la sua arte come un ringraziamento alla fede e trasferirla così in immagini e opere diverse, mentre poi con il rinascimento questo concetto viene a cadere totalmente, da allora in poi l'artista è riconosciuto come tale e come tale può esprimere quello che sente e prova con rappresentazioni di personale e diverso soggetto.

Durer comprese anche che nella pittura rinascimentale il soggetto dipinto doveva passare attraverso una ricerca psicologica per la sua comprensione totale ed ecco appunto il suo forte svilupparsi e dedicarsi alla ritrattistica e all'autoritratto dimostrando così il suo elevato approfondimento in materia.

Il suo primo autoritratto se lo fece guardandosi allo specchio dimostrando una sicurezza tecnica non indifferente, basti pensare che aveva circa tredici anni e la tecnica usata fu la punta d'argento, una tecnica che non ammette ripensamenti e cancellature, a getto.

Dal ritorno di un viaggio studio in Olanda, dedicò e regalò un suo autoritratto (aveva ventidue anni) alla fidanzata ( sua prossima sposa) che lo rappresentava con un fiore d'eringio a sottolineare la sua fedeltà.



Ed ecco che a ventotto anni un nuovo autoritratto fa notare quanto l'artista ( egli stesso) sia visibilmente compiaciuto, ha raggiunto la notorietà , e non è più un artigiano, ma la nuova corrente pittorica lo considera un intellettuale ovvero è sorto l'artista.



Uno dei suoi più famosi autoritratti è quello con la pelliccia, in cui il Dure adotta volutamente una posizione regale, frontale, una tecnica volutamente usata nel Medioevo per rappresentare il Cristo.

Alla destra dell'opera un'iscrizione: “ Io, Albrecht Durer , all'età di 28 anni, con colori eterni ho creato me stesso a mia immagine”.


Ritornando alla premessa, visto così senza dare peso della storia e del periodo, potremmo pensare che questi non era altro che un presuntuoso, o se vogliamo essere ancora più moderni, potremmo dire che se la sua “vanità” fosse in questo periodo storico, avvamperebbe sui social trascinandosi dietro milioni di followers, ma invece è soltanto un rimarcare la considerazione che questi artisti avevano di se stessi, come poi del resto anche Leonardo da Vinci tendeva a riproporci.

Con il rinascimento l'artista è un lavoro, stimato e considerato, pagato e sostenuto, e può persino firmare le sue opere, cosa fino ad allora era severamente proibito.


Roberto Busembai (errebi)


Immagini web: Autoritratto di Albrecht Durer a tredici anni (Collezione grafica Albertina di Vienna) – Autoritratto di Albrecht Durer alla fidanzata ( Muso del Louvre Parigi – Autoritratto di Albrecht Durer (Prado di Madrid) – Autoritratto con pelliccia di Albrecht Durer ( Vecchia Pinacoteca di Monaco di Baviera)

venerdì 28 ottobre 2022

SALONE INTERNAZIONALE LUCCA COMICS & GAMES APRE OGGI PER 5 GIORNI - TEMA "HOPE"


Il 24 Settembre 1966 apre ufficialmente nella città di Lucca il Salone Internazionale dei comics, “i fumetti” meglio conosciuti, evento quasi a sorpresa in quanto la prima ufficiale edizione era avvenuta l'anno prima a Bordighera in Liguria, ma gli enti organizzatori avevano poi pensato e riflettuto che la sede ottima sia per per posizione geografica, sia per i collegamenti ma soprattutto per la caratura storica e ambientale, per le sua caratteristica ancora interamente medievale, per il fascino dal carattere “fantastico” che la rappresentava con il suo arborato cerchio di mura seicentesche interamente intatte, insomma Lucca era il luogo perfetto.

Grazie all'allora sindaco Martinelli, che entusiasta della scelta mise a disposizione per la manifestazione, il Teatro del Giglio ( che fu sede per la “Tavola Rotonda” per gli addetti ai lavori) e il Baluardo San Regolo, uno dei tanti baluardi delle mura nominate, per l'allestimento delle mostre espositive.

Da quel fatidico giorno fino ad oggi è sempre stato un aumento esponensiale sia di pubblico che di notorietà, sia di prestigio che di internazionalità, insomma un evento che nel tempo non è mai invecchiato ma è cresciuto e evoluto a pari passo con i tempi e con le esigenze sempre più diverse, dai fumetti ai cartoons e poi ai video e ai games ecc.ecc.

Oggi dopo due anni di pandemia si ritorna ad aprire questo magistrale mondo fantastico e culturale ( con una vendita di biglietti che supera ogni edizione, quasi 300.000) con un programma davvero ricco e intenso e con un “titolo” forte e fiducioso, HOPE (SPERANZA).


Due piccole note del tempo: la prima che nel teatro del Giglio ci fu un divertito duello tra pistoleri del West, infatti si scontrarono amichevolmente il “padre” di Tex, Gianluigi Bonelli e Rino Albertarelli, uno dei più grandi maestri del fumetto e disegnatore del famoso, appunto, TEX.

La seconda che il destino volle che soltanto a pochi mesi da questo fantastico evento, e precisamente nella vigilia di Natale del 1966, uno dei grandi fumettisti e più conosciuto e amato del tempo e di sempre, ovvero Walt Disney, morisse lasciando davvero un vuoto incolmabile per tutti, e infatti l'anno dopo il Salone ne dedicò una mostra antologica a cura di Ernesto Guido Laura, Rinaldo Traini e Sergio Trinchero, illustri storici, giornalisti, forganizzatori e sceneggiatori di fumetti.


Roberto Busembai (errebi)


Immagini web: Il primo poster del Salone 1966 – Il fondatore dell'Esposizione Internazionale dei Comis, Romano Calisi insieme al maestro fumettista Lee Falk, produttore e creatore di Mandrake e l'Uomo mascherato , grande ospite alla rassegna del 1966 - L'odierno poster con il titolo “HOPE” del 2022

martedì 25 ottobre 2022

LEONARDO DA VINCI - LA SCAPIGLIATA


C'è un forte bisogno di vivere di signorilità, di gentilezza, di morbidezza nei tratti e di eleganza nell'espressioni, c'è un forte bisogno di immaginazione, di sogno e di leggerezza nei pensieri, e tutto questo lo possiamo rivivere e vivere in questa magnifica opera del grande Leonardo da Vinci, un tratto di matita, un tocco leggero di pennello, un progetto (forse) o soltanto un suo desiderio o studio come tecnicamente lo si vuol chiamare, tale comunque da renderci quel magico senso di bellezza e cura che ben pochi maestri hanno raggiunto con così veloce e delicata maestria.

La Scapigliata come viene denominata questa opera, è conservata alla Galleria Nazionale di Parma e rappresenta un volto in tre quarti di donna giovanile con lo sguardo abbassato e abbandonato, quasi triste o quasi no, malinconico ma di una dolcezza indescrivibile, un volto delicato come delicata lo è la naturale giovinezza, con i capelli al vento (ricci) a malapena tracciati ma tali da imprimerli e quasi toccarli, una scapigliatura appunto come ne deriva poi il titolo del quadro.

E' una piccola tavoletta realizzata a biacca con pigmenti di ferro e cinabro e leggermente rifilata nel bordo tale da far supporre che un tempo avesse un'ulteriore cornice, diversa da quella che attualmente la contiene. La storia di questa tavola ha quasi del fantastico in quanto pare sia menzionata nell'inventario dei beni del duca di Ferdinando Gonzaga del 1627, in quanto si parla di “un quadro dipintovi una testa d'una dona scapiliata , bozzata, con cornici di violino, oppera di Lonardo d'Avinci, stimato lire 180”. Ma non si è assolutamente certi che si tratti di questa che oggi ammiriamo, tanto che intorno al 1826 gli eredi del pittore Callani danno in offerta all'Accademia delle Belle Arti di Parma questa Scapigliata che entrerà più tardi nella Galleria Palatina attribuendola addirittura al Leonardo da Vinci, risultato comunque dalle ricerche che aveva fatto il Callani stesso.


Non sto a rimembrare tutta la storia che questa opera ha avuto, tra contestazioni, rilievi e accurate ricerche, quello che interessa è la decisa attribuzione del Maestro e quel poco di immaginazione che ci riserva nel guardarla e nel porsi per un attimo nel suo intento personale, cercando di carpire la motivazione di questo studio, tanti l'attribuiscono a uno studio della sua poi famosa opera “Leda e il cigno”, altri ne vedono le sembianze nella Vergine delle rocce, ma a noi interessa soltanto la sua magistrale facilità di rilasciarci emozionalità.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web – Leonardo da Vinci – La Scapigliata e foto di Errebi dalla Galleria Nazionale di Parma.

lunedì 10 ottobre 2022

11 OTTOBRE - SAN PAPA GIOVANNI XXIII


Non occorrono parole per descrivere la bontà e l'amore che erano insite e fuoriuscivano come zampilli verso il mondo, quelle di Papa Giovanni XXIII o meglio conosciuto come “il Papa buono”.

Doveva essere un papa di transizione, primo perchè già di età molto avanzata, secondo perchè nel veloce conclave non c'era stata nessuna disponibilità comune per un nome altisonante e decisivo per lo sviluppo della Chiesa, era un nome sorto così quasi a posticcio tra due forti posizioni, e non avrebbero mai immaginato invece, che si fu una papato di transizione ma soltanto per il breve periodo (soltanto cinque anni) ma talmente intenso e fortemente decisivo tale da dare una spinta, anzi uno vero e proprio spintone, con la dichiarazione dell'apertura del Concilio Ecumenico del Vaticano.

Al suo primo Natale come Papa, si recò a visitare i malati degli ospedali romani S.Spirito e del Bambin Gesù portando una carezza e un sorriso a tutti, mentre il giorno dopo si recò al carcere di Regina Coeli mischiandosi tra i detenuti e.....

“Dunque, eccoci; sono venuto , m'avete visto.Io ho fissato i miei occhi nei vostri, ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore...”

E racconta pure, per avvicinarsi ancora di più alla loro emarginazione, che anche un suo parente, un giorno, per non sa quale briganteria, era finito in prigione, perciò anche Lui, indirettamente era “uno di loro”.

Fu il Papa della gente comune, del popolo vero della chiesa, fu il suo sorriso, la sua bonarietà, il suo goffo aspetto, la sua disponibilità, il suo semplice parlare e esprimere che conquistarono il mondo, fu il Papa soprattutto della Pace, non dimentichiamo la sua famosa enciclica Mater et Magistra del 1961, che non è rivolta soltanto alla Chiesa ma a “tutti gli uomini di buona volontà”, un vero e incisivo messaggio di giustizia e vera pace nel mondo.

Fu colui che rifiutò ( se il termine può essere appropriato) ogni prudenza con la politica, si avvicinò persino alla Cina di Mao e invitò al suo cospetto un giornalista russo, che altro non era che genero dell'allora capo supremo Kruscev. Era il periodo della guerra fredda, se non addirittura gelida, allora (come adesso) il terzo conflitto mondiale era alle porte, e Papa Giovanni XXIII si rimboccò davvero le maniche e si fece tramite i due manipolatori mondiali, Russia e America, inducendoli alla comprensione e alla risoluzione con la pace. Quando avvennero i fatti di Cuba, il Papa scrisse direttamente a Kruscev un monito personale e assolutamente non politico concludendo con queste testuali parole:
“ Se avrete il coraggio di richiamare le navi portamissili proverete il vostro amore del prossimo non solo per la vostra nazione, ma verso l'intera famiglia umana. Passerete alla storia come uno dei pionieri di una rivoluzione di valori basata sull'amore. Potete sostenere di non essere religioso, ma la religione non è un insieme di precetti, bensì l'impegno all'azione nell'amore di tutta l'umanità che quando è autentico si unisce all'amore di Dio, per cui anche se non se ne pronuncia il nome si è religiosi!”. E ottenne il ritiro delle armi!!!

La data scelta per la sua ricorrenza, altro non è che il giorno in cui fu aperto il Concilio ovvero l'11 ottobre del 1962 e la sua canonizzazione è avvenuta il 5 Luglio del 2013 con la firma di Papa Francesco

Chi non ricorda, io ero bambino e ne ho ancora impresse la cadenza e la voce, il monito rivolto alle persone presenti in Piazza San Pietro per la fiaccolata serale dell'apertura del concilio, il famoso discorso della luna, rivolto umanamente a tutti i presenti e non, un discorso semplice ma toccante che terminò con queste immense parole:

“ Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: Questa è la carezza del papa. Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona. Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e della amarezza”.

Morì il 3 Giugno ( Il giorno dopo la Pentecoste) del 1963 e le sue ultime parole rivolte ai medici furono : “ Non preoccupatevi per me, Le valigie sono fatte e son pronto a partire.”

Angelo Giuseppe Roncalli (Papa Giovanni XXIII) era nato a Sotto il Monte in provincia di Bergamo nel 1881 e fu eletto Papa il 28 Ottobre del 1958.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Photo Papa Giovanni XXIII

GUSTAV KLIMT - MORTE E VITA


“Morte e vita” è una delle opere pittoriche del grande e eclettico artista austriaco , Gustav Klimt, che io sinceramente amo di più, sarà per la grandezza della tela (178 × 198 cm), sarà perchè ho avuto l'occasione di poterla ammirare dal vivo, sarà sopratutto per quei colori e quella forte incisività del ciclo della vita che lo stesso Maestro ha sempre voluto presente nelle sue “particolari” opere.

In questo dipinto, è ben visibile la dualità strutturale delle figure, da una parte (la sinistra) una tetra figura, uno scheletro che indossa una veste blu dai disegni particolari, mentre dall'altra (la destra) a dovuta distanza, un gruppo di persone avvolte in un contesto colorato e variopinto, avvolte e avvolgenti tra loro stesse.

E' bene evidente che nella prima figura sia rappresentata iconograficamente con il teschio, la Morte, ovvero colei che guardinga e nascosta vige su ognuno di noi, una figura che sa bene nascondersi nel buio della notte e nel freddo blu profondo consono alla sua veste dai motivi di croci e cerchi, una figura tesa e sempre allerta che pare stia per avvicinarsi a qualcuno per eseguire il suo perfido scopo. La sua sarà sicuramente una scelta casuale ma vittoriosa.

Il gruppo riunito in un vortice di tasselli colorati (quasi un mosaico) dove predominano i colori caldi e vivi, è tutto impegnato a che la vita scorra amorevolmente, amichevolmente e dovutamente in perfetta e naturale armonia, consono o no, del suo destino, ma tenace nel difendere il suo appropriato momento vivente. Tra queste figure invase dai colori si notano una madre con un bambino, monito del proseguo della vita stessa, una donna anziana a dimostrare il lungo viaggio della vita e due innamorati che altro non sono che il frutto e l'essenza della vita stessa ovvero l'amore.

Klimt in questa opera ha voluto raffigurare l'effettiva coesistenza della felicità e gioia con il dolore e morte. Nel 1911 la tela vinse un premio a Roma durante la International Art Exhibition.

Morte e vita sottolinea ancora una volta di quanto l'una non possa esistere senza l'altra, le gioie della vita sono rese possibili grazie alla “presenza” della morte, il dolore che deriva dalla morte non è altro che lo stesso che vige e vive dentro di noi vivendo.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Gustav Klimt – Morte e Vita (Leopold Museum - Vienna)

lunedì 3 ottobre 2022

NEL SILENZIO, SAN FRANCESCO


Quando il silenzio invade questa stanza vuota, mi sento decisamente persa nel vuoto del momento, come una meteora che non trova la sua orbita e vaga come pazza tra le stelle e i pianeti. E nel silenzio odo pure il movimento lieve che il sole incespica tra le tende e le persiane, un raggio che traluce solo per il suo potere di ergersi nel tutto ma conscio, sono sicura, di non scaldare come dovrebbe anche se la stagione non lo vorrebbe più a sognare. E nel silenzio, che non mi spaventa affatto, ma mi tormenta dentro il pensiero e vago e non ho freno, perchè non riesco a capacitarmi della nullità dei tempi e delle stagioni, degli anni e dei passati che tristemente orami pare non servano più a niente. Quando ero ragazzina, mi verrebbe da dire secoli fa tanto le cose sono cambiate così rapidamente e quantitativamente, avevo la percezione esatta di quello che la mia esistenza, quella di tutti insieme, avesse su questa terra, avevo la sicura certezza che l'uomo in genere avesse nonostante tutto e tutti, nonostante l'enorme animalità incisiva, nonostante la forza d'istinto, un animo e un'intelligenza tali da poterlo fare ragionare e emozionare. In questi giorni, che non importa sottolineare, ma che tutti andiamo a riscontrare, ritengo che il San Francesco che pure la chiesa stessa tende ad osannare, non è altro che un'icona da guardare come una moda ormai sorpassata, è come uno “smile” che fa bene averlo sul telefonino oggi che ricorre il suo giorno, ma del valore del suo fare e del suo magistrale dire e agire non resta che uno stupido bisogno di sentirselo solo nominare ma difficile da intendere e assorbire, capire e emulare.

Un grande e buono santo padre, Giovanni XXIII nel suo breviario riportava queste parole in riguardo alla commemorazione di San Francesco, parole che oggi sembrano davvero straniere e lontane ma che avrebbero invece più incisività di allora, e se non altro anche allora (primi anni 60) incidevano su un mondo traballante e avido di violenza e ricchezza materiale:

“ ...molti sognano o desiderano la ricchezza materiale, il denaro, e San Francesco insegna a tutti, di ogni condizione, a combattere contro la – concupiscenza degli occhi – che è grande inganno, una grande vanità.....” e termina “.....Se vogliamo trovare anche sulla terra un poco di gioia interiore bisogna seguire l'esempio di San Francesco, che compì miracoli pur di aiutare gli affamati.”

E allora, in questo silenzio del tutto e del vecchio, è così difficile vedere che la nostra esistenza non è altro che un passaggio e che basterebbe soltanto un sentimento insito e nascosto, seppellito e camuffato dentro un possibile cuore, un sentimento che si chiama amore e che nessuno ormai ne conosce il senso e il valore.....è soltanto un cuoricino apposto come riconoscimento a un messaggio sms o un post su un qualsiasi “social” che di “socializzare” non ha proprio niente.


Zia Molly


Immagine web

GIOTTO DI BONDONE - RINUNCIA DEGLI AVERI


Per la ricorrenza particolare di oggi, 4 ottobre San Francesco d'Assisi, non potevo che parlare di uno dei più emblematici affreschi dedicati al Santo, e in particolare la quinta scena, delle ventotto che il grande Maestro Giotto ha dipinto nella Basilica superiore di Assisi, ovvero il momento in cui il Santo rinuncia ai beni terreni o Rinuncia degli averi.

La scena rappresentata si svolse nella piazza del Vescovado di Assisi, ed è volutamente suddivisa in due precise e nette rappresentazioni, a sinistra vediamo in risalto con una veste gialla (simbolo di ricchezza) il padre di Francesco, Pietro di Bernardone , con le vesti del figlio in un braccio mentre l'altro braccio a pugno chiuso pare voglia infierire verso lo sciagurato che ha osato diffamarlo in pubblica piazza, ma fortunatamente fermato nel gesto da uno dei tanti altri signori presenti, quasi divertiti del fatto. Alle loro spalle una costruzione che ha soltanto lo scopo di scenografia ma che risalta ancora la posizione sociale dei sottostanti, infatti assomiglia più a una torre che a una normale abitazione, e le torri nel medioevo erano simbolo di dominio e ricchezza.

A destra, il Santo che ormai denudato dona la sua anima e il suo corpo nelle mani di un Dio, del quale Giotto lo rappresenta con una mano che esce dal cielo e si protrae verso Francesco, dietro il Santo la rappresentanza religiosa, il vescovo cerca di nasconderne alla meglio le oscenità, e sopra di loro la solita scenografia di una costruzione che a prima vista non è più una torre ma che riporta simbolicamente la memoria a abitazioni ecclesiastiche se non addirittura ad una chiesa.

La potenzialità di questo affresco ( come del resto di tutti gli altri) è la novità pittorica che il Giotto ha impresso da ora in poi, è l'uso dei chiari e scuri, delle lumeggiature che donano la tridimensionalità, la muscolatura e soprattutto l'imprimere nei volti, per la prima volta, una caratterizzazione emotiva.

La conoscenza di San Francesco all'epoca era molto diffusa e viva , erano trascorsi poco più di sessant'anni dalla morte, da quando Giotto ne ha iniziato i lavori e la rappresentazione altresì non era che il primo e più importante motivo di diffusione e conoscenza popolare.

Non si può rimanere freddi alla spettacolare maturità e innovativa artistica nel guardare il solo San Francesco che è descritto con una precisa muscolatura e espressione estasiata . Un San Francesco che rispetta l'iconografia di umile e devoto, un San Francesco che dona tutto se stesso e non soltanto i suoi beni e abiti, un donarsi al mondo intero e al Dio sovrano, un donare l'umiltà e la carità a tutti coloro che ne vorranno bere e mangiare, come il Cristo donava prima del suo sacrificio sulla Croce , nell'ultima cena.

Giotto, colui che “inventò” la modernità pittorica e fu la spinta iniziale di un Rinascimento che avrebbe poi trovato la sua maggiore esposizione.

San Francesco che fu nel mondo l'esempio del bene terreno e dette prova di quanto fosse possibile poterlo dimostrare e donare al di sopra di tutto e di tutti, senza curarsi delle risa e degli ammiccamenti, dei voltafaccia e dei dinieghi, ma al tempo stesso continuare e perdonare pure quelli.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: GIOTTO DI BONDONE – RINUNCIA DEGLI AVERI ( Basilica superiore di San Francesco ad Assisi)

lunedì 26 settembre 2022

LORENZO LOTTO - RITRATTO DI MARSILIO CASSOTTI E DELLA SUA SPOSA FAUSTINA


Nella sua più che decennale residenza a Bergamo, il Lotto ebbe di dimostrare e accentuare la sua veneranda maturità espressiva, soddisfacendo le più svariate commissioni dalle più titolate famiglie del loco, i Brembati, i Tassi, e tra i tanti anche i Cassotti.

Per i Cassotti, Lotto pare dipingesse addirittura cinque opere di cui due furono commissionate dal capostipite della famiglia, Zanin Cassotti, per il figlio Marsilio e proprio queste due sono quelle che ancora oggi si possono ammirare. Una, lo Sposalizio Mistico di Santa Caterina e Santi che si trova presso la Galleria Nazionale d'Arte a palazzo Barberini a Roma e l'altra, Micer Marsilio Cassotti e sua moglie Faustina, un ritratto nuziale dei due giovani, che si trova presso il Museo del Prado di Madrid.

Il Maestro Lotto era già conosciutissimo per le sue abilità pittoriche ma soprattutto per il grande talento da ritrattista, tanto da introdurre nella sua tecnica vicinissima alle opere Raffaelite e del Giorgione, il pathos psicologico tipico della pittura nordica.

Nel 1523 il giovanissimo ventunenne Marsilio e Faustina Assonica, una giovane benestante di Bergamo, si unirono a nozze e il padre di lui commissionò al Lotto un quadro che potesse commemorarli e al tempo stesso da poter dimostrare con questa opera il trionfo sociale che l'unione rappresentava facendo si che i due sovrastassero sulla nobiltà del luogo; il compenso richiesto dal Lotto fu di trenta scudi ma ne riuscì a incassarne soltanto venti.

Il giovane compito nel suo abito di seta scuro, dove bordature di trine escono furtive per risaltare un lungo camicione bianco, è intento nell'atto del porre l'anello alla prossima moglie, un gesto molto simbolico che denota la superiorità e il potere sulla coppia, coppia dal cui tipico atteggiamento devozionale e di subordinazione è raffigurata la giovane donzella, leggermente più bassa, la testa inclinata e protesa verso di lui. Faustina è in rigorosa veste color rossa, un colore molto di moda nella Venezia del tempo, un sontuoso abito di seta, una cuffia di broccato e una vistosa collana di perle, uno dei tanti simboli con cui il Lotto riempiva le sue opere, infatti questa denotava proprio la sottomissione della donna al marito. Dalla collana pende un bellissimo cammeo raffigurante Faustina Maggiore, la nobile romana moglie dell'imperatore Antonio Pio, ritenuta e iconicamente riconosciuta come la moglie perfetta.

L'iconografia e simbologia come detto erano parte integrante del Lotto e in questa opera è ancora più marcatamente e vistosamente rappresentata con il giovanissimo Cupido alle spalle dei coniugi che pone un giogo sulle loro spalle dalla facile lettura, ovvero un riferimento tangibile degli obblighi matrimoniali e infatti da quel gioco si ergono foglie di alloro , a sua volta simbolo di virtù e molto allusivo alla loro fedeltà. Pare la rappresentazione del giogo sia stata volutamente proposta dal padre dello sposo, per avvertirlo che il matrimonio era una cosa seria e non come era abituato alle sue scappatelle, perchè intendesse che il matrimonio è una condizione di dipendenza fra i due coniugi. L'ironia del tutto è stata ben scandita dal Maestro aggiungendo all'espressione del Cupido un sorriso ambiguo rivolto a Marsilio mentre posa il giogo.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Lorenzo Lotto – Micer Marsilio Cassotti e sua moglie Faustina ( Museo del Prado - Madrid)

martedì 13 settembre 2022

MICHELANGELO MERISI DETTO CARAVAGGIO - SAN MATTEO E L'ANGELO


Certo anche un grande Maestro come lo è stato Michelangelo Merisi detto Caravaggio si è trovato un giorno colto dalla disperazione.

Era l'anno 1602 e il Cardinale Matteo Contarelli commissiona al Caravaggio un quadro che sarebbe poi stato posto alla parete centrale della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma, un quadro che avrebbe concluso i già due presenti ai lati, riguardanti le storie di San Matteo. Il Maestro si mette al lavoro e da una sua rivoluzionaria e spettacolare versione, un San Matteo umano, un uomo grossolano, un popolano seduto e con le gambe nude e incrociate stenta a ragionare su di un libro mentre l'angelo che lo dovrebbe istruire per lo scrivere le Sacre Scritture è un “buffetto” romano, scanzonato che pare quasi divertirsi dell'ignoranza di quell'uomo. Immaginate lo stupore e scalpore che ha sollevato e che il Cardinale certo non l'avrebbe nemmeno pagato e soprattutto lo avrebbe addirittura screditato. Immaginiamo il tormento di quell'artista che si era espresso nel meglio dei suoi “rivoluzionari” sentimenti, che aveva dato tutto il cuore perchè l'opera colpisse anche il più ingenuo dei fedeli che davanti a quella avrebbero certamente pregato e donato il loro amore. Farne un altro era l'unica soluzione e la fortuna volle che il Marchese Giustiniani lo volesse a ben volere e acquistò quel quadro dai preti della chiesa che erano tanto scossi da quei piedi scalzi e sporchi in primo piano del Santo e con quelle gambe nude e male accavallate.





E così Caravaggio si mise al lavoro e ne compì un altro, degnamente stupendo ma sicuramente di meno fascino e forza interiore, San Matteo è più decoroso negli atteggiamenti ma dimostra ancora una certo muscolatura grossolana e quella titubanza nel dover scrivere e imparare quasi per forza e quell'angelo “parruccone” che assume ancora la bonarietà di un ragazzotto di paese e quasi si sforza a enumerare le cose da scrivere e insegnare. Ed ecco la maestria del Maestro pittore che con la immancabile forza della luce fa si che il tutto assuma quel senso aulico che si rispetti per ogni Santo rappresentato e renda il Santo Matteo attento e consapevole della sua missione mentre l'angelo che lo istruisce è la diretta ispirazione mistica tale da eseguire devotamente la scrittura evangelica.

Il primo dipinto che come detto fu acquistato dal Giustiniani giunse poi nei secoli a venire, tramite le varie ereditarietà, al Kaiser Fredrich Museum di Berlino dove però purtroppo nell'ultimo conflitto mondiale subì la distruzione dai bombardamenti.

La seconda versione, fortunatamente, è ancora ben visibile nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma.


Roberto Busembai (errebi)


Immagini web: Prima versione (perduta) di San Matteo e l'Angelo di Caravaggio – San Matteo e l'Angelo di Caravaggio ( Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma)

lunedì 5 settembre 2022

CRISTOFANO ALLORI - GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE


Dal Libro di Giuditta nel Vecchio Testamento prende spicco il racconto di Oloferne e Giuditta e narra che al tempo il re assiro Nabucodonosor essendo impegnato in una tremenda campagna militare contro un popolo che occupava l'Iran centrale, ovvero i Medi, lasciò al suo fidato e bravissimo generale Oloferne l'impresa di occuparsi della parte occidentale del paese, sferrando così un'imponente guerra di sottomissione al popolo d'Israele. La vittoria sembrava conquistarlo ma accampatosi nella città di Betulia, una ricca e vedova giovane si presentò al suo accampamento con la fedele serva, prostrandosi per l'aver riconosciuto le colpe del suo popolo e di cedergli la sua indiscutibile fiducia e approvazione. Oloferne, ammaliato da quella bellissima giovane e dalle sue parole la invita a un grandioso banchetto premonitore di assoluta vittoria, ma la donna una volta fatto ubriacare il generale e addormentatolo, lo decapita con un netto colpo di spada.

L'esercito Assiro a quella vista si disperde e si ritira immediatamente lasciando Giuditta eroina liberatrice del popolo Israelita.

A questa storia, divenuta l'icona dell'astuzia, coraggio e fede in Dio, se non soprattutto una rivincita della donna sulla supremazia maschile, hanno fatto ricorso nel tempo tanti artisti e ognuno ne ha dato una sua precisa e personale interpretazione, anche se la scena clou è quasi sempre la stessa, ovvero il momento dell'afferrato omicidio, basti pensare al grande Caravaggio, alla geniale Artemisia Gentileschi se non addirittura al più moderno Klimt, ma non solo alla pittura ma anche alla scultura come quella di Donatello visibile al Palazzo Vecchio a Firenze nella sala dei Gigli.

Uno dei capolavori personali su questo tema è senz'altro quello di Cristofano Allori, pittore fiorentino del 1600, che da una versione della storia da lasciare assolutamente inquieti e al tempo stesso sbigottiti, l'atto è già stato eseguito, il capo tagliato in mano all'eroina, ma la scena non è affatto macabra o spaventosa, non c'è sangue e dai volti non si enuncia nessun sentimento di violenza, quello che terrorizza, spaventa è proprio quel silenzio che accomuna i tre personaggi, che spiccano ognuno da uno sfondo caravaggiesco, assolutamente scuro.

L'Allori ha saputo offrire innanzitutto un manierismo adulto rappresentando il volto di Giuditta in uno sguardo obliquo con un'espressione sospesa tra malinconia e languore, ma la maestria è ancora più grande nella rappresentazione del sontuoso abito offrendo una matericità delle stoffe che avvolgono il longilineo corpo dell'eroina.

La figura di Giuditta si staglia dal fondo scuro, il giallo e ricco abito la impreziosisce ancor di più, la spada, oggetto dell'uccisione, è riscontrabile appena dall'elsa che è tenuta nella sua mano destra, il devoto apprezzamento dell'atto è dato dal volto della serva che si staglia dal bianchissimo manto che l'avvolge mentre la testa di Oloferne pare abbia ancora vita nello staccarsi dal fondo dorato, impreziosito e damascato dell'abito della stessa.

Al tempo l'opera ebbe un immenso successo tanto che a Parigi, già città di artisti e mode, ne andavano a ruba milioni di copie con il profondo rammarico di non avere la possibilità di vederne l'originale. Ma la fortuna del dipinto era avvalsa anche da diverse interpretazioni e leggende che nel Seicento riempivano i salotti, infatti si mormorava che la splendida figura di Giuditta altre non fosse che l'amante dell'Allori una certa Mazzafirra e che la serva fosse addirittura la madre della sua donna, come pure vagavano voci che il volto di Oloferne fosse l'autoritratto del Maestro stesso.

L'opera apparteneva al tempo a Ferdinando II de' Medici il quale poi ne fece dono a Carlo de' Medici per poi arrivare, per eredità, al Palazzo Pitti (FI)dove tutt'ora è visibile nelle sale della Galleria Palatina.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Cristofano Allori – Giuditta con la testa di Oloferne ( Galleria Palatina – Palazzo Pitti (FI)

sabato 3 settembre 2022

UN CAFFE', UN RITORNO ED UN PENSIERO


Quando si ritorna, che sia da un viaggio o da una semplice giornata, è sempre ben gradito un presente che accomuna, tutti, chi ha atteso e chi è arrivato, un lieto stare insieme intorno ad un bel dolce e una bevanda calda e invitante come un buon caffè....e anche io con voi voglio fare questo, perchè tre mesi di silenzio sono davvero tanti, e mi sento io colpevole di questo allontanamento, non certo dovuto per controversie ma solo per un riposo mentale ma soprattutto fisico che la mia persona aveva davvero bisogno. Ma oggi sono di nuovo a voi con tutto l'impeto che sempre mi appartiene di raccontare le vicissitudini del quotidiano vivere cercando di colorare un grigio sempre presente e spesso, come pare adesso, più tendente al buio nero che a un grigio perla.

Non voglio annoiarvi con l'elenco delle mie “vacanze” che poi si completerebbe in quel poco dicendovi che sono stata la mare, un mare che ho quasi a “due passi” e che pure l'inverno mi attira e lo consolo, un mare che quest'anno spesso mi ha costretta ad abbandonare per il troppo caldo, il rifrangersi del calore sulla sabbia era davvero incredibile, un'estate calda e soffocante come non mai ma sicuramente da me ancor più accentuata e sofferta per la precarietà naturale del peso degli anni. Come si dice in toscana, quello che mi frega è la testa, ovvero avrei dentro quella voglia di correre, gioire, sfaticare, saltare e ballare come una giovincella ma poi devo sottostare, ahimè, al fisico che non risponde, la linea tra il dire e il fare è interrotta irrimediabilmente, e allora, come accade in questi giorni, vorrei andare a vedere il Jovanotti beach, impelagarmi tutta tra i giovani e la sabbia, tra il mare e le canzoni, tra il frastuono assordante e il muoversi delle onde, ma chi ci resiste a un'attesa sotto il sole e tutto il resto.

Comunque questa mia non è “disperazione” tutt'altro, è solo un nuovo modo di vedere le cose, si attraversano i monti magari sulle dolci colline, si ammirano quei luoghi che la fretta e frenesia della gioventù non ci aveva fatto soffermare, e allora come sarà bello quel borgo antico che ci sono stata varie volte, e mai avevo notato quella chiesa romanica e il suo fascino culturale, come sarà bello quel lago appenninico che spesso avevo ammirato soltanto come contorno su di una verde valle e adesso lo rifinisco e avvaloro per la sua maestosità di acqua e di colore, di sostentamento di vita per la vegetazione, gli animali e le stesse persone che vi vivono vicine. E del mare non avremo più la frenetica voglia di fare un tuffo di corsa o di serenate notturne intorno a un fuoco sulla spiaggia, ma cogliere conchiglie e godersi dei tramonti che solo la natura sa davvero pitturare.

E allora eccoci di nuovo a questo tavolo da salotto, con un caffè o tè a secondo il piacere, una fetta di dolce, magari una torta di riso che a me piace tanto, due chiacchiere, un grosso abbraccio e poi teniamoci vicini così per questo lungo inverno che dovremo passare, la vostra zia Molly è ancora piena di cose da parlare, discutere e condividere, la vita è un gioco a carte coperte, non conosciamo il seme e il valore, ma ad ogni carta che voltiamo sul tavolo della sorte, spesso sta a noi darle il giusto modo di valere e saperla con intelligenza e amore giocare......Noi giochiamo sempre, sarà la sorte se vuole farci perdere non certo ci abbandoniamo ad aspettare.


Zia Molly

immagine web

lunedì 30 maggio 2022

COSIMO ROSSELLI - ESPOSIZIONE AL POPOLO DEL MIRACOLO EUCARISTICO


Il 30 dicembre del 1230, nel complesso conventuale di Sant'Ambrogio in Firenze avvenne un famosissimo (tutt'ora ricordato) miracolo conosciuto come il Miracolo dell'Incarnazione.

Ricorreva in quella mattina la festa di San Fiorenzo e il sacerdote proposto del monastero delle monache benedettine di Sant'Ambrogio, Uguccione, portava a termine il suo esercizio nel dire messa, ma l'ormai sua veneranda età gli causò un'innocente distrazione, infatti non asciugò bene, come solitamente viene fatto, il calice, per cui alcune gocce di vino consacrato vi rimasero esposte. L'indomani, per il consueto rito mattiniero della messa, riprendendo il calice vi trovò meravigliosamente del sangue rappreso.

Naturalmente il vescovo di Firenze di quel tempo volle il famoso calice e comunque dopo un anno ( proprio il 7 Dicembre 1231 per la festività di Sant'Ambrogio) con una solenne processione e con la partecipazione devota di tutta la popolazione, il calice venne riposto nella chiesa dove anche oggi risiede.

A testimonianza di tutto ciò fu commissionato (intorno al 1486) un sorprendente affresco al Maestro Cosimo Rosselli, affresco denominato Esposizione al Popolo del Miracolo Eucaristico e che si trova proprio nella cappella del Miracolo , anche se diversi storici ne danno una diversa interpretazione, credendolo eseguito proprio per ricordare una processione indetta nel 1340 in occasione della pestilenza che afflisse Firenze e il calice fu “usato” dal vescovo Francesco Silvestri di Cigoli, proprio per “rimedio a sì grande male”, portando la reliquia in processione. Qualunque sia l'interpretazione, è presente comunque la documentazione scritta del lavoro del Rosselli e della sua richiesta per tale affresco “che à dipinto per l'adornezza del Miracholo.....e che debba avere fiorini centocinquantacinque larghi d'oro in oro.....7 Aghosto 1486”.


L'affresco è ritenuto il capolavoro del Rosselli (lo stesso Vasari ne fa menzione e lode) anche per la sua devozione ai particolarissimi dettagli, come il paesaggio in lontananza che si ritiene sia presumibilmente Fiesole, la donna che stende i panni e persino il gatto che caccia un piccione sul cornicione della finestra. Ma oltre i dettagli è importante la sua fedele rappresentazione sia degli edifici che delle persone. Da notare per esempio la cura delle vesti ma anche dei copricapi delle signore che indossano quasi tutte delle bionde parrucche in quanto al tempo la moda le richiedeva per apparire più belle. La scena principale, sulla destra, in corrispondenza della facciata della chiesa di Sant'Ambrogio, un vescovo espone il calice circondato da preti e suore tra cui la stessa committente sopra citata, la badessa. Vi sono poi gruppi di persone e sono tutti personaggi realmente esistiti come in quel gruppo al centro, in primo piano, a cui vengono attribuiti i nomi di tre umanisti: Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola e Agnolo Poliziano. L'uomo sulla sinistra che guarda verso noi spettatori pare che sia proprio l'autoritratto del Rosselli.

La rappresentazione così fedele e veritiera che il Rosselli ha effettuato fa si che ancor oggi è riconoscibile (in quanto nel tempo non ha subito eccessive alterazioni strutturali) la chiesa di Sant'Ambrogio.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Cosimo Rosselli – Affresco dell'Esposizione al popolo del Miracolo Eucaristico – Cappella del Miracolo - Chiesa di Sant'Ambrogio (Firenze).

mercoledì 18 maggio 2022

TOMMASO DI STEFANO DETTO IL GIOTTINO - PIETA' DI SAN REMIGIO


Siamo nella seconda metà del Trecento e nell'arte Giotto ha già spopolato con la sua innovazione artistica e tanti ormai sono i suoi seguaci o “imitatori” ma tra i tanti uno in particolare ha l'ambito di essere citato e nominato in quanto non solo ha cercato in pieno di riprendere gli spazi e i volumi del Giotto ma ha anticipato quel pathos descrittivo del gotico e del rinascimento stesso.

Parlo del Pittore Tommaso di Stefano, detto Giottino, che nelTrecento fu uno dei più famosi maestri fiorentini e che pure il Vasari esalta nelle sue Vite, e della sua opera più significativa e anche una delle pochissime opere pervenutaci nel tempo, La Pietà di San Remigio che è attualmente visibile alla Galleria degli Uffizi a Firenze.

E' un'opera pittorica su tavola nella quale rappresenta il tragico momento della deposizione dalla Croce e l'ultimo addio (il compianto) dei suoi congiunti e soprattutto della Madre Maria. Il Giottino prende a descrivere una certa quantità di personaggi e li colloca ognuno in posizione e atteggiamento diversi proprio per creare quel senso di spazio tridimensionale e al tempo stesso di “anticipare” la rappresentazione dei diversi sentimenti tra coloro che partecipano al compianto .

La scena è volutamente divisa in due parti ben distinte, parti che sono caratterizzate dalla grande croce nel centro, infatti nella parte destra rientrano le figure Sante, come la Madonna, la Maddalena e San Giovanni mentre nella sinistra compaiono due figure con costumi “moderni”, inginocchiate si vedono una suora e una ricca signora, comprensibile dal fastoso costume, e queste altre non sono che le committenti della tavola, benedette dalle figure di San Benedetto in vesti bianche e San Remigio in vesti vescovili in quanto la tavola stessa era destinata alla chiesa intitolata al suo nome e per tanto tempo è stata sopra l'altare maggiore. Da notare che le due figure committenti, sono le uniche che non hanno l'aureola in quanto non sante e perciò rappresentate anche in una dimensione più piccola in quanto dobbiamo fare un richiamo alla proporzione gerarchica che era tipica dello stile bizantino del Duecento e che qui comunque il Giottino lo ha a malapena evidenziato, in quanto i committenti, i signori, saranno loro che prenderanno più valore e prestigio nell'ambito sociale e vorranno sempre più essere ben rappresentati.

Per dare ulteriore luce e creare un mondo divino il Giottino ha ricoperto il fondo con foglia d'oro, così da fare apparire i personaggi come fossero fuori da ogni preciso luogo e determinato tempo.

Un'opera d'arte davvero sconvolgente se si pensa al periodo in cui venne eseguita, un'opera come abbiamo detto anticipatrice in cui il Giottino ha saputo trasmetterci tutto il dolore e il compianto dei personaggi, ha saputo magistralmente e genialmente ricondurci a un evento religioso con pacata fede e accorato sentimento.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Tommaso di Stefano detto Giottino – Pietà di San Remigio ( Galleria degli Uffizi - Firenze)

martedì 3 maggio 2022

CARLO CRIVELLI - MADONNA CON IL BAMBINO (Accademia Carrara di Bergamo)


Ci sono opere d'arte che colpiscono subito per la loro raffinatezza d'immagine e per l'accuratezza di particolari e soprattutto per l'abbinamento dei colori e delle giuste sfumature, restiamo davvero abbagliati a tante pitture già per la forma e lo stile, la precisione e il magistrale talento del Maestro, ma ci sono altrettante opere d'arte pittoriche che non basta soffermarsi a tutto questo che ho detto, ma hanno bisogno di un'eventuale e accurata lettura, insomma hanno bisogno di essere scoperte piano piano e trovare così la piena valorizzazione di un'opera che magari al momento ci appariva “bella” ma non di più.

E' il caso della Madonna con il Bambino del Maestro Carlo Crivelli, un'opera appartenente all'Accademia Carrara di Bergamo, che colpisce per la classica raffinatezza di stile del pittore e per i suoi accesi colori, a parte il manto della Madonna che nel tempo ha perso il suo splendore in quanto l'orato che gli apparteneva è andato perduto. Ma se si osserva più del dovuto non ci manca di notare una quantità di cose e oggetti che paiono quasi un'allegoria del Maestro, ovvero impiantati nel contesto del quadro magari solo per un suo capriccio o piacimento, e invece proviamo insieme ad analizzare quanto ci vuol dire con questa simbologia, quanto di più ci vuol far valorizzare quelle Sante figure rappresentate.

L'immagine della Madonna con il Bambino è posta al di la di un parapetto quasi appoggiata a una vistosa tenda rossa da cui sovrasta una grossa ghirlanda con frutta varia ma da cui spiccano due grosse e colorate mele, lo stesso frutto che il bambino Gesù stringe tra le sue piccole mani, ed è proprio questa mela il primo messaggio. La mela è il simbolo del peccato, il frutto colto da Eva e mangiato anche da Adamo, il peccato originale di cui Gesù il Redentore, incarnandosi, ne sostiene il peso, e le stesse mele nella ghirlanda marcano ancora di più questo concetto.

Un altro frutto che subito lascia perplessi e attoniti, è quel cetriolo in primissimo piano, posato sul parapetto. Anche in questo caso ha valore simbolico e molto accurato se vogliamo perchè bisogna partire dal concetto delle letture sacre, che sia l'Antico Testamento che il Nuovo Testamento per il pensiero medievale, erano volti a sostenere delle concordanze. Bisogna risalire ai fatti di Giona che dopo essere stato inghiottito dalla Balena fu rigettato fuori, vivo, dal vomito dell'animale tre giorni dopo e secondo la leggenda biblica egli si svegliò sotto alberi di zucche. I tre giorni in cui Giona ha trascorso nel buio del ventre della balena sono paragonati perciò ( per il concetto di cui sopra, di concordanza) ai fatidici tre giorni in cui il Cristo vive nell'aldilà prima della sua resurrezione.

Zucche e cetrioli essendo della stessa famiglia, cucurbitacee, nel Rinascimento erano considerati la stessa cosa, viene da se la lettura che il cetriolo altro non è che la rappresentazione simbolica dei giorni del Cristo nell'aldilà.

Il cetriolo si trova in mezzo a altre due precisi simboli, il garofano e la ciliegia, il primo appare quasi fuori luogo, in quanto è ritenuto simbolo nuziale e parrebbe quasi senza senso ma un'analisi più accurata e se vogliamo propriamente mistica ci porta a pensare alla Madonna che incoronata Regina del Cielo dopo l'Assunzione e considerata dalla Chiesa come sposa di Cristo, ecco che ritorna giusto il simbolo del garofano. La ciliegia, chiamata il frutto del Paradiso, è simbolo di virtù.

Per terminare questa lunga ricerca, volgiamo lo sguardo verso il paesaggio dietro le figure e notiamo che è totalmente diverso tra quello di sinistra a quello di destra, nel primo gli alberi sono verdi mentre nel secondo sono completamente secchi, ebbene altresì non sono che il primo il ritorno alla vita , l'Incarnazione, mentre il secondo rappresenta l'aridità , la morte di Gesù.

Molti quadri di Crivelli ( e della sua bottega) sono pieni di questi simboli e sono proprio questi che rispondono in modo esaustivo alle più svariate informazioni se vogliamo anche puramente teologiche, ma rispondono anche sulle credenze del periodo stesso in cui le opere furono dipinte.

Come avete notato, spesso non basta una semplice veduta, l'immagine del tempo, diversamente da ora, ha bisogno di più accurata e posata visione per essere compresa.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Carlo Crivelli – Madonna con il Bambino (Accademia Carrara di Bergamo)

sabato 16 aprile 2022

DA CHE "PACE" STAI?


I giovani, i maschi, insieme al sagrestano della nostra basilica erano adibiti ai lavori più pesanti e infatti erano loro che si dovevano procurare i tavoli, trovati e spostati dalla canonica, dall'ufficio di Monsignore e alcuni anche dalla sagrestia, e portati e allineati al transetto destro dell'altare maggiore, poi eravamo noi ragazze insieme alla perpetua, che stendevamo sopra immense tovaglie bianche e profumate, e insieme avevamo così preparato il tavolo che all'indomani, il giorno di festa, il giorno di Pasqua, sarebbe stato apparecchiato da ogni fedele che si recava alla Messa.

Era la tradizione, forse folklore, che superava la fede stessa, ma ogni domenica di Pasqua nessuno poteva recarsi a Messa senza avere tra le mani anche un solo uovo cotto, un uovo sodo, che posavamo su quei candidi tavoli, e ognuno aveva il suo modo di portarlo, chi un cesto, chi avvolto in un tovagliolo accuratamente chiuso con i lembi intrecciati, chi addirittura un vassoio o un piatto, chi incartato, e tutto posavamo quel cibo umile, chi oltre uno, due o tre, anche cinque o sei, non era il numero che aveva rilievo, ma il gesto. Una volta posato sul tavolo insieme a tanti altri, si apriva il suo involucro e lo tenevamo aperto bene in evidenza insieme a tanti altri che pareva facessero capolino tra quell'insieme colorato di tovaglioli, stracci e cartoni. A un certo punto della funzione pasquale l'officiante usciva dall'altare maggiore e si avvicinava a quella lunga e variopinta tavola e aspergeva sopra le uova, l'acqua a benedire. Terminata la Messa, ognuno riprendeva con cura le sue uova ricomponendo il contenitore e poi a casa, prima del pranzo pasquale con i parenti e amici, divideva in parti eguali l'uovo sodo e ognuno ne prendeva il suo pezzetto e lo mangiava. Tutto questo prima di ogni cibo e ogni bevuta ed era in quel preciso attimo, in quel determinato momento che davvero sentivamo la Pasqua, la vera Pasqua di pace, tra di noi, tra parenti e amici stretti, tra fratelli e sorelle, tra madri e figli, tra padri e nonni.

Pace, una parola che difficilmente viene usata e concepita, l'uomo ha un rapporto di conoscenza di pace che esula il principio stesso della parola, per l'uomo pace è sinonimo di compromesso, si da un qualche cosa solo se si ottiene un'altra cosa, io ti do se tu al contempo mi dai, e solo così possiamo vivere in pace l'uno verso l'altro. Abbiamo coscienza piena della pace, ma una pace di “interesse”, oggi più che mai in questi giorni in cui la guerra ci sta stretta e vicina, abbiamo bisogno forte di pace. E' già difficile dire “da che parte stai?” che qualsiasi sia la risposta si rischia il linciaggio, ma è già di per se assurdo proporre una simile domanda, nella guerra non “si sta per l'uno o l'altro” se non siamo amanti della guerra stessa. Ed ecco allora che nasce naturale la risposta “ io sto per la pace!” Ma “ da che pace stai”? Forse quella che ti permetta ancora di vivere egoisticamente con la libertà di un ristorante sotto casa, la televisione a scelta, il supermercato anche per l'eccesso, il lavoro e la casa di proprietà, forse è da questa parte che sta la tua Pace? O la pace che abbia il compromesso di poter andare ancora avanti, tra una guerriglia di oggi, una violenza domani, una rivoluzione, un estremismo lontano, ma che non intacchi il conto bancario e azionario, o se non altro quel tanto da trovare altre soluzioni o altre guerre da fare. Ma è duro il concetto, è quasi innaturale, come se l'uomo non fosse abituato a dare e donare, quando eravamo bambini, il nostro compagno di banco ci poteva chiedere un inchiostro di china di un colore che lui non possedeva mentre magari aveva una matita di un rosso che noi non avevamo, ed ecco che alla richiesta di lui della china, rispondevamo forse si certo, SE....se tu mi dai la matita di quel rosso particolare.....mai che fosse partito da noi o dall'altro il bisogno di dire ….ho la china di un colore speciale, se la vuoi la puoi usare, oppure ho visto che non usi nessun rosso per colorare con le matite, se vuoi ne ho qui quante ne desideri........

E' solo un esempio, anche banale e di poca importanza, ma basta a far capire che pace non è contraccambiare con interesse ma deliberatamente volerla senza alcun fine.

Domani è Pasqua e io voglio immaginare un “domani” dove si stenderà una immensa tovaglia bianca su questo mondo e ognuno che posa un uovo sodo con sopra una bandierina con i colori della Nazione a cui appartiene così da illuminare la tavola di svariati colori. Poi improvvisamente vedere un vento impetuoso che fa volare tutte quelle bandierine e allora al momento in cui si dovrebbe riprendere il nostro uovo, capire e comprendere che tutte le uova sono assolutamente uguali e lo sono nel colore, nella forma e soprattutto nel sapore!


Buona Pasqua

Zia Molly


Immagine web: Photo by Loretoidas

domenica 10 aprile 2022

DOMENICA DELLE PALME


Ci svegliavamo quasi alle prime luci dell'alba, io e mia sorella, spinte dalla frenesia della festa e dal pensiero del sicuro divertimento che avremmo provato. Sapevamo di dovere andare a Messa, ma quella mattina era particolare, dovevamo cogliere senza essere sgridate, da alcune piante di olivo che erano nel “campo” (allora non esisteva il giardino, il campo era la zona attigua alla corte dove abitavamo e era di tutti, era in quel luogo che avvenivano le coltivazioni così dette casalinghe, ovvero gli orti e di alcuni frutti, come anche qualche olivo), dei rametti di foglie da portare in chiesa. Ci sentivamo furtivamente complici di un furto, e la cosa ci entusiasmava ancora di più, pensando a quante volte, invece, avevamo “rubato” ciliegie, furtivamente ma consce della nostra colpa e con la paura di essere scoperte, ciliegie o fichi a seconda della stagione in “campi” lontani e diversi. La mamma ci attendeva in cucina con già il latte munto, bollito e fumante nella tazza, un poco di pane avanzato “arrostito” nella stufa a legna, il caminetto solitamente in quel periodo primaverile cominciava a fermare la sua funzione, la tiepida stagione non lo richiedeva e la stufa a legna era obbligatoriamente accesa per la funzione di cuocere il pranzo o la cena. L'aria spesso era umida, la terra e l'erba bagnata, ma il piccolo viottolo tra i campi che dovevamo attraversare per raggiungere la piccola chiesa, a noi pareva un vero mare verde su cui navigare. Spavalde seguivamo il passo di nostra madre che insieme ad altre due o tre signore, abitanti delle corti vicine, procedevano lente ma decise scandendo i passi con rassicurazioni o informazioni varie sul procedere di alcune semine o malattie di qualche animale o che altro, ma tutte con uno o due rametti di olivo tra le mani. Giunte poi in chiesa, che era sempre colma di persone nonostante fosse mattina appena nata, ci portavamo, anche a spinta talvolta, ma eravamo bambine e il nostro passare solitamente apriva la folla, al limite dell'altare, come se la funzione ci attirasse, e in effetti era così, tutti quei gesti, parole, lumi accesi, il fumo acre dell'incenso bruciato, e la voce del prete, forte e decisa, spesso cantilenante ci avvolgevano in un mondo particolare e fantastico. Non eravamo certo prese poi tanto dalla fede in se stessa, ma ci attirava la cosa che sentivamo giusta e affatto pericolosa, e poi il nostro innocente divertimento si concentrava poi tutto nell'attimo in cui , l'officiante chiedeva a tutti di alzare l'ulivo che avevamo in mano, che lui avrebbe con cura e devozione benedetto spargendo acqua con quel “pennello” come lo chiamavamo noi, in lucido argento.

Era la domenica delle Palme, una domenica in cui la Chiesa ricorda l'acclamata entrata di Gesù in Gerusalemme, una giornata in cui domina il concetto vero e proprio della pace, pace tra gli uomini, pace in terra, pace nell'anima e nel corpo, soltanto pace!

Ma anche senza essere bigotte, o altamente devote, o anche solamente atee, io penso e sono certa che il concetto di pace debba essere unanime, e in questo periodo non so fino a che punto invece possa essere interpretato. Lo ripeto spesso, ma ribadirlo penso sia comunque necessario, io sono una signora di una certa età, e non voglio certo fare comizi o discussioni in merito, non ne ho la conoscenza adatta e non sono certo in grado di poterne fare e anche potendo non mi sentirei davvero di farne, ma con il piccolo ricordo che ho accennato , voglio soltanto far capire quanto poco basta per rendere felici e sereni le persone, si eravamo bambine, ma quanti bambini adesso NON provano più queste emozioni? Ecco che senza dover fare comizi o sbandierare multicolori bandiere, basterebbe che l'uomo guardasse due occhi grandi di una piccola creatura e si immedesimasse e ritornasse come quel bambino, forse sarebbe davvero in grado di sparargli?

La domenica della Palme non è soltanto un evento religioso, deve essere anche un evento morale e civile, un evento nel cuore e nell'anima, un semplice ramo d'olivo piantato nel cuore perchè abbia a fiorire!


Zia Molly

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