venerdì 19 febbraio 2021

ESOPO E LA FAVOLA


Nel lontano, circa, 600 a.C. un uomo di piccola statura, gobbo e deforme, nelle colonie greche dell'Asia Minore divenne, per la storia, il primo e il più famoso scrittore favolista del mondo, colui che dette voce a tutti gli animali. Pare che avesse una vita molto movimentata, fu fatto schiavo dai pirati e fu pure venduto a Efeso dove fu comprato (sua fortuna) per essere pedagogo dei figli del nuovo padrone.

Esopo, colui che ha “inventato” la favola è costellato di molte leggende o favole che lo riguardano, e questa che vi narro è una della tante che, la generazione meno giovane credo che già la conosca, veniva spesso narrata nelle scuole, per la giovane generazione spero che sia un piccolo insegnamento di morale che lo stesso Esopo evidenzia.

Il padrone dello schiavo pedagogo Esopo, un giorno avendo moltissimi invitati a pranzo lo invita ad andare al mercato e cucinargli tutta la miglior roba che trova, perchè naturalmente voleva far bella figura.

Esopo provvede e all'ora di pranzo ecco che vengono portate in tavola, lingue fritte, lingue in umido, lingue arrosto e così via....

Naturalmente il padrone richiama Esopo e chiede spiegazione di ciò

“ Padrone mio” gli rispose “ mi avete ordinato di comprare la roba migliore che si trovasse sul mercato? Ebbene ho comprato la lingua infatti con la lingua si parla, con essa si discute, ci teniamo in rapporto con i nostri simili; la lingua è l'organo della verità e della scienza, si domano e si esaltano le folle, si trionfa nelle assemblee.....”

E avrebbe continuato all'infinito se il padrone un poco spazientito non l'avesse chetato.

“Bene” comandò il padrone “ domani ritornerai al mercato e mi dovrai cucinare la peggior roba che trovi”.

L'Indomani a pranzo le portate furono: lingue fritte, lingue in umido, lingue arrosto......

“Ma cosa hai fatto?” Urlò stavolta il padrone

“ Padrone mio” rispose Esopo “ La lingua è anche la peggior cosa che si trovi, perchè con essa si falsa la verità, s'inganna il prossimo , si calunniano gli onesti, si accusano gli innocenti, si nega la scienza, s'intimidiscono i pacifici avversari.....”

Non sappiamo come abbia reagito il padrone, ma sicuramente al di la del buon proposito del filosofo, una ramanzina certo gli sarà stata fatta.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web

martedì 16 febbraio 2021

PABLO PICASSO - FAMIGLIA DI SALTIMBANCHI


Nell'aprile del 1904, Pablo Picasso si trasferì a Parigi con la piena convinzione di stabilircisi per sempre e “alloggiò” in un fatiscente fabbricato, un agglomerato di edifici in legno che si ergevano su un lato della collina di Montmartre, il Bateau – Lavoir, che era poi in sostanza il luogo preferito e scelto da molti artisti e intellettuali dell'epoca. Qui Picasso strinse moltissime amicizie tra gli artisti e letterati e anche tra gli artisti circensi che spesso andava a ammirare al circo stabile Medrano.

Quando dipinse questa “Famiglia di Saltimbanchi” Picasso aveva 24 anni ed era già un noto artista, aveva già attraversato il famoso periodo blu, e queste rappresentazioni circensi invece appartengono al periodo rosa, dove la tonalità dei colori si fa più dolce, rosata.

I saltimbanchi sono raffigurati in uno scenario vuoto e deserto, dove pregna la solitudine ma non sono tristi, hanno invece una serenità pacata accentuata dai colori, sono figure poste in diverse posizioni e ognuno pare essere isolato in se stesso e non legano tra di loro, ognuno assorbe in se la sua condizione, la solitudine che emana il quadro viene associata all'isolamento sociale di una comunità quella che poi Picasso viveva, la condizione degli intellettuali messi e isolati al margine.

Sono cinque personaggi, un arlecchino in primissimo piano, su tre quarti, in piedi che tiene per mano una bambina, forse una piccola ballerina, di fronte un corpulento signore in una vistosa tuta rossa con un sacco sulle spalle, al loro fianco un ragazzino in costume da bagno con un bidone sulle spalle e accanto un bambino vestito con una grande giacca blu ( che ha rassomiglianza del giovane Picasso) con lo sguardo rivolto a una figura femminile seduta, sul limite destro del quadro, una figura forse più estranea degli altri.

Ritengo questa opera del maestro Picasso, di una potenza emotiva attuale spaventosa, la nostra solitudine dovuta dalla pandemia, la solitudine dovuta al distacco sociale, la nostra “fredda” visione del futuro, ma soprattutto del presente ancora lontano e deserto, senza infiorescenze e con tenui tocchi di colore. Un “carnevale” (visto che siamo in quel periodo) dove abbiamo la maschera e il costume ma voglia e volontà di divertirsi non combaciano con l'andamento generale di vita.

Non è tristezza, ma coscienza “amara” del presente che viviamo.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Pablo Picasso – Famiglia di saltimbanchi ( National Gallery of Art - Washington)

sabato 13 febbraio 2021

ARLECCHINO


Pur sottotono per cause che sappiamo, il Carnevale arriva e non possiamo davvero gettarlo nel dimenticatoio....allora io ve lo propongo con qualche nota in più su qualche famosa maschera italiana, tre la più antiche che vi posso narrare, che la commedia dell'arte abbia creato e rappresentato.

Arlecchino, possiamo definirlo la maschera emblematica del carnevale stesso, pensate che è una delle più antiche e fu naturalizzato in quasi tutti i teatri dell'Europa, ci porta a un ricordo dei mimi della commedia latina, infatti di Greci al tempo portavano in scena tutti i popoli della terra allora conosciuti e tutte le classi della società, sapienti, mercanti, negozianti caldaici, preti egiziani, maghi persiani, cortigiane di Lesbo, schiavi africani e tra questi un uomo vestito a volte con pelle di capra, altre con una pelle di tigre dai più svariati colori, un bastoncino come arma, la testa rasata coperta da un cappello bianco e una maschera nera, veniva definito il giovane satiro ma potrebbe benissimo essere il futuro Arlecchino.

In Italia Arlecchino, come del resto anche un'altra maschera famosa Brighella, venivano nominati Zanni, una parola che pare derivi dalle latine Sannio, Sanniones, ovvero giullari, buffoni e che già nel Sannio di Cicerone si può riconoscere il nostro Arlecchino con una maschera che con la bocca, con il viso e con i gesti e la voce portava al ridere chi lo ascoltava.

All'inizio la maschera non era che un servo zotico, pure vigliacco, ma con il tempo venne a cambiare fino a raggiungere il suo carattere misto d'ignoranza e arguzia semplicità e malizia e pure tanta grazia. Rappresenta un fanciullone che ha comunque lampi di intelligenza e che riesce a volte pure a ragionare e nelle sue azioni, siano buone o cattive, riesce sempre a donare un qualcosa di eccitante, agile, scattante e al tempo stesso anche goffo, è un fedele e paziente servitore sempre innamorato e pure imbarazzato per se e anche per il suo padrone.

Il costume in origine era costituito da una giacchetta aperta sul davanti e unita da vari nastri dai più svariati colori, un paio di stretti calzoni coperti anche essi da pezzi di stoffa colorata, aveva la maschera nera e una barba incolta e lunga, cinturino, borsa e una spada di legno. Ma nel tempo anche l'abito ha subito le sue trasformazioni, la giacca si è raccorciata, i calzoni ancor più ristretti e ridotti e gli stracci colorati sono divenuti quadretti multicolore collocati con ordine e armonia su tutto il costume, la maschera nera, la coda di coniglio come emblema della poltroneria, il cinturino e un bastone.

Ed ecco aprire il Carnevale che tanto piace ai bambini e che comunque intenerisce il cuore dei grandi.


Roberto Busembai (errebi)


Disegno Errebi

mercoledì 10 febbraio 2021

PEDRO BERREGUETE - FEDERICO DA MONTEFELTRO CON IL FIGLIO GUIDUBALDO


A dimostrazione che i tempi e i fatti non sono poi unici nel loro insieme e che niente è da sorprendere e niente è particolare, basta sfogliare le pagine della storia dei tempi passati e evidenziarle anche con l'unica forma, la pittura, che allora era possibile (come oggi i mass media) per diffondere e far conoscere i fatti e soprattutto le persone che contavano.

Questa emblematica tavola dipinta a tempera dal definitivamente accertato Pedro Berruguete ( in principio la critica l' aveva attribuita a Melozzo di Forlì e a giusto di Gand), un maestro pittore spagnolo che trovò sede e considerazione presso l'allora Stato di Urbino , sottolinea e rimarca a pieno titolo il potere del Duca Federico di Montefeltro ( duca appunto di Urbino) e aspira con fermezza la possibile discendenza ,con il duplice ritratto, con il figlio dall'apparente età di circa quattro o cinque anni, se si prende in esame la datazione dell'opera intorno al 1476-1477.

Il dipinto subì l'asportazione dal Palazzo Ducale dove era originario da parte del Cardinale Barberini in seguito all'erogazione del Ducato allo Stato Pontificio, ma ebbe ritorno nella sede originaria, e dove ancora si può ammirare, intorno al 1934 per merito dell'acquisto dello Stato.

Federico di Montefeltro divenne signore di Urbino nel 1944 e con le ricchezze accumulate nell'esercizio delle guerre fece di Urbino una sede invidiabile, dedicandosi alla costruzione di grandi lavori che ebbero la realizzazione grazie ai numerosi e grandi artisti che il Duca volle alla sua corte ( il pittore Piero della Francesca e l'architetto Francesco di Giorgio Martini, tanto per citarne alcuni). Certo non tutto splendeva, basti pensare che la sua ascesa iniziò con una congiura di palazzo in quanto per ottenere la successione, Federico stesso organizzò che il fratello maggiore venisse assassinato. Non sto a dilungarmi sulle vicende più o meno importanti di questo grande nobile, ma dobbiamo pur sottolineare la congiura de' Pazzi a Firenze, contro i Medici, che fu certamente appoggiata dal Duca ma che non fu mai menzionato da Lorenzo de Medici, pur sapendolo da confessione, solo per motivi personali e per tornaconto in seguito, questo tanto per far capire come girava e gira il mondo.

Il Duca, nel dipinto, è rappresentato seduto su una specie di trono mentre è assorto alla lettura di un enorme manoscritto che appoggia su uno scaffale ligneo, sul quale è ben evidente il copricapo della mitra ingioiellata donatagli dal sultano di Persia. Federico indossa la tipica armatura da combattimento con sopra un vistoso mantello di broccato rosso con decori in oro e al collo una pelliccia di Ermellino che insieme alla giarrettiera che è ben evidente sulla sua gamba sinistra, marcano le rispettive onorificenze ottenute nel 1474. A completamento dell'armatura sono rappresentati pure la spada al fianco, la mazza e l'elmo in terra. Tutto è voluto e dovuto a rappresentare la sua grande e potente importanza, persino la prospettiva, dal basso in alto, è valsa a darne ancora di più la sua magnificenza. Il figlio Guidubaldo è appoggiato al padre e è rivestito con un ricco abito e con due ametiste sul petto e sulla fronte che rimandano simbolicamente ad allusioni zodiacali, ha in mano lo scettro del comando con impressa la dicitura “Pontifex” a premonizione di una possibile e futura investitura ecclesiastica.

Il quadro nel suo insieme, con tutte le simbologie rappresentate, vuole appunto rappresentare i vari aspetti del potente uomo, la decisa e marcata importanza che esso aveva, l'uomo che possedeva il potere dell'intelletto voluto e protetto dal potere militare con la certa e sicura continuità della stirpe.

Un quadro potente per il suo messaggio del tempo, ma se vogliamo anche molto attuale.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Pedro Berreguete – Federico da Montefeltro con il figlio Guidubaldo ( Palazzo Ducale - Urbino)

venerdì 5 febbraio 2021

IL FALCO E LA GALLINA


Nei tempi lontani, in un medioevo fiorente, speso capitavano nelle piazze dei borghi cintati, menestrelli e cantori a “vendere” i loro pensieri e quello che conoscevano, offrendolo cantando e rimeggiando un poco tra il vero e il falso, tra il serio e il divertito. Tra queste canzoni ve n'era una assai divertente e pure istruttiva che diceva:

“C'era una volta un falco di cent'anni

che aveva il covo in cima a un campanile.....”

ma la memoria spesso crea inganni e io sinceramente non la tengo più a mente, però, visto che ho iniziato questo discorso tanto vale che della storia ve la racconti in prosa, che ho in mente assicurato il senso e la morale.

C'era un falco, un bellissimo esemplare di quella specie, che ogni mattina si staccava dal campanile della chiesa dove aveva rifugio, e sorvolava sopra il borgo e la campagna, un po per cacciare e un poco anche per ascoltare e curiosare.

Di sotto, in un pollaio, ogni mattina era un gran andirivieni di polli e di galline, per ammirare attenti quel volo magistrale, attenti perchè il falco è bello quando vola ma se è in vena di accaparrarsi il cibo, loro diventano un bel bocconcino saporito, adoravano la sua leggerezza e invidiavano la sua resistenza al volo, anche loro avevano le apposite ali ma l'arte di volare non gli era consentita, al di la di un piccolo saltello tra un trespolo e un'altro, insomma un alzarsi di terra di appena un palmo di una mano.

Certo quando le galline si mettono a discutere, è un gran bel “pollaio” e allora una diceva che il falco era un uccello fortunato, l'altra a dire che il Signore gli aveva voluto bene, un altra ancora ne era quasi innamorata per le sue belle piume e il suo corpo slanciato, e un'altra invece la più spaccona sentenziò:

“ Quanto siete chiacchierone e insulse, io vi dimostrerò in che consiste la “grande bravura” del falco!”

E così dicendo salì sulla cima del campanile e dall'alto parlò ancora a quelle galline sorprese e incuriosite che a collo alzato lo stavano a guardare:

“ Certo è facile volare di quassù, spiccare il volo già a questa altezza, lo vorrei vedere, il vostro amato falco, fosse obbligato come noi a aprire l'ali giù, dal basso, raso terra, da dove ora e sempre noi viviamo, facile fare il gradasso e pavoneggiarsi da cotanta altezza. Ebbene vi dimostro quanto è così facile, per cui spiccherò il volo e anzi visto che volerò in alto, lassù, verso le nuvole, non è che avete da richiedere qualche cosa al cielo, se devo farvi qualche commissione......Uno! Due! Tre!....”

La gallina precipitò nell'aria svoltolando e gonfiandosi delle ali, prima sbatacchiando in un cornicione del campanile, poi sui rami di un fico e infine, e fortunatamente, cadde su covone di paglia che ne attutì il disastroso atterraggio.

Le galline tutte accorsero credendo il peggio ma si riebbero nel vedere la loro “audace” compagna rialzarsi mezza svenuta e con gli occhi stralunati ma ancora viva.

Dall'altro il falco che aveva visto tutta la scena, se ne rideva compiaciuto e si divertiva ora a vedere quelle galline che con fasce, cerotti e cotone avevano un gran-daffare per curare la compagna.

Dice la morale di questa piccola fiaba:

“ Non si deve mai avere sgomento di fronte alla difficoltà ma non si deve però mai pretendere di essere falchi quando siamo nati galline, è da schiocchi pretendere di essere in grado di saper fare tutto come lo è mettersi in testa di non essere buoni a fare nulla”


Mio libero adattamento dalla fiaba di Renato Fucini “ Il falco e la gallina”


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Frans Snyders or Snijders – Il falco e la gallina

mercoledì 3 febbraio 2021

SALVADOR DALI' - IL SACRAMENTO DELL'ULTIMA CENA


Il mio amore e devozione verso il “Il Maestro Pittore” Salvador Dalì, è talmente grande che difficilmente riuscirei ad esprimerlo, ma al contempo, forse perchè troppo rapito dalle emozioni, per me è anche e soprattutto difficile descrivere una sua opera pittorica, già di per se enigmatica e piena di simbologie e riferimenti consci e inconsci dell'essere umano. Oggi però con la più assoluta riserva ma con una volontà e un desiderio impagabile vi voglio accennare a un'opera che io amo particolarmente, mi riferisco a “Il sacramento dell'ultima cena” opera datata 1955 (per la cronaca l'anno della mia nascita).

Salvador Dalì, il pittore surrealista, colui che si avvalse e conobbe i “geni” dell'inconscio e dell'animo umano, Sigmund Freud e il gesuita Teilhard De Chardin, l'artista ossessionato dalla numerologia e dalle proporzioni e che ne traccerà sempre e con cognizione e precisione sulle sue tantissime opere pittoriche, l'artista che si dichiarava non credente all'esistenza di Dio, ma che dipingeva comunque il dubbio umano in una particolare sacralità e finezza da considerarlo sospeso in un trapasso tra il giusto e il non, tra il sacro e il profano, insomma nella eterna incertezza naturale che ogni essere umano credente o meno spesso si pone nella vita terrena.

Dalì iniziò questa meravigliosa opera con l'intento di “smantellare” l'iconografica scena del l' Ultima Cena di Leonardo, per costruirne una più eterea ma che avesse un impatto assolutamente tra l'inconscio e il reale. Usa come paesaggio intero l'amata baia di Port Lligat, sovrapponendovi in “trasparenza” la figura massima del Cristo, già questa simbolica trasformazione assicura la divinità come parte interiore e esteriore dell'umane cose, del mondo intero, Cristo è presenza. Si parlò al tempo di quasi blasfemia in quanto i tratti del volto del Cristo appartengono al quelli della sua amata, Gala, al donna che spesso appare in quasi tutti i suoi dipinti, ma l'arte non deve e non può avere limiti e soprattutto bisogna cogliere l'intento dell'opera stessa, l'impronta più importante del suo Cristo non era tanto la visione reale del volto, ma il suo esprimere e il suo sentimento, un Cristo che emerge dal mare e con la sua sinistra si tocca il petto a dichiarare “io ci sono, sono io il Redentore” e con la sua destra a enumerare i cinque elementi che sono la base della vita, a rimarcare che Lui è la presenza in ognuno di essi (Spirito, aria, terra, acqua, fuoco), o anche a sottolineare la Santa Trinità.

Intorno i dodici apostoli prostrati al suo insegnamento e sulla grande tavola un pane spezzato e un solo bicchiere da cui parte la luce che si diffonde e si moltiplica, il tutto racchiuso in una figura geometrica, un dodecaedro (dodici facce come i dodici apostoli) inscrivibile in un una sfera, ovvero la perfezione cosmica, la vera e misteriosa armonia dei cieli.

Sopra di loro, tra le figure dell'Ultima cena e il cielo che li sovrasta appare a braccia allargate un Dio (o Cristo) senza volto a sottolineare la sua trasfigurazione per la salvezza dell'umanità sulla nuova vita.

Una nuova alba, un nuovo giorno si apre all'orizzonte, la speranza vince e si consolida, la presenza surreale e mistica sono emblematicamente apportate per la conoscenza.....

Molte e ancora molte sarebbero le letture su questa magnifica opera, abbandoniamoci per ora a osservarla per la sua integrità pittorica e ognuno ne apprenda quello che riesce farsi emozionare, io adoro questo quadro per l'intenso messaggio che a me pare voglia esprimere, la salvezza del mondo è sempre presente, sempre in ogni nuovo giorno.


Roberto Busembai (errebi)


Immagine web: Salvador Dalì – Il sacramento dell'Ultima Cena (1955)