martedì 30 giugno 2020

DANIELE MENCARELLI - TUTTO CHIEDE SALVEZZA

Quando un poeta, colui che della vita e della natura umana, ha sottolineato e marcato il sentimento, l'ardore, la passione, il dolore e il rimorso, il bello e il brutto di un trascorso umano, ovvero quando un poeta con le poche parole riesce a commuovere e a toccare il cuore, non credo che ci sia altra possibilità meravigliosa che un si tale personaggio non meriti di essere lodato, ma quando un poeta di così fattura, riesce a romanzare, a scrivere sulla natura umana, a farne addirittura un libro , ebbene non ci sono davvero più parole per elogiarlo tanto il brivido corre nelle vene e attraversa spudoratamente il cuore senza dargli memore di poter non cedere alla sentita commozione.
Ho letto il libro, candidato alla finale del premio Strega,(vincitore del premio Strega giovani) del giovane poeta, scrittore, Daniele Mencarelli “Tutto chiede salvezza” e difficilmente mi trovo a non sapere come esprimere il mio giudizio, altamente positivo anzi superlativo, ma tanto difficile da poterlo manifestare quanto invece è stato per lui tanto facile poterci immedesimare e farci trascinare in una storia odierna, difficile, cruda, al tempo stesso tanto vera da usare il nome del protagonista, lui stesso.
Salvezza è la richiesta del titolo, una salvezza che Daniele, il protagonista, chiede per tutto e per tutti, per se, per la madre, per coloro che si trovano in quel reparto ospedaliero, dove la pazzia rasa la “normalità” o dove la “normalità” inverte il ruolo da diventare essa stessa malata. Uno scrivere semplice e dialettale, un romano popolare ma non ignorante e pacchiano, mai volgare, anzi di casa, familiare. Un insieme di personaggi che non lasciano spazio a nessun giudizio e non si possono giudicare, un insieme di malati, infermieri e medici che non trova differenza alcuna, perchè l'uguaglianza, la differenza, sta proprio nell'urlo interiore del giovane Daniè....
“Salvezza, per me. Per mia madre all'altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza”
Ho avuto un sentore immenso nel leggerlo, e quel sentore si chiama con meraviglia “deja vu”, un sentore che mi ha riportato alla lettura suprema di un giovane, allora, PierPaolo Pasolini, vi giuro ho tremato alle parole che si fondevano via via nella mia mente, alle voci che leggevo su questo stupendo libro.....una vicinanza letteraria che ho sentito e che davvero non provavo da quel tempo...Brivido, anzi beatitudine. Un libro da leggere assolutamente, e poi rileggere perchè sono certo non si deve dimenticare e tante cose vanno sottolineate, non dimentichiamo che è un poeta che scrive, e i tanti periodi sono grandi messaggi.
“ ….Ma io in certi momenti potrei accende le lampadine co' tutta la felicità che c'ho dentro, veramente, nessuno sa che significa la felicità come lo so io.”....
“Oggi pomeriggio passa tuo fratello con qualche cambio, t'ho preso un po' de biscotti e de succhi de frutta, te serve altro?”
“ No mamma, non me serve nient'altro, te sta tranquilla me raccomando, va bene?”
“ Tranquilla ce starò quando ritorni a casa.”

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Copertina del libro

MAESTRO DI BADIA ISOLA - MADONNA IN TRONO CON IL BAMBINO


Quando le forze fisiche e lo spirito me lo consentivano, ero spesso abituato e allenato a fare escursioni con la mia adorata mountain bike, escursioni talvolta anche di vari giorni se non addirittura settimane, e in questo viaggiare libero per l'Italia mi ha portato anche a conoscere luoghi, tradizioni, spettacoli della natura e la diversità dei popoli che stando a casa nella mia cerchia abituale di sempre, non ne avrei certo immaginato l'esistenza. Tra queste ho scoperto anche varie storie e leggende, se non addirittura opere d'arte di cui non ne sapevo ( certamente ignorante) l'esistenza.
In una bellissima escursione, nei dintorni di Siena, tra cui era compreso il tipico e medievale paese di Monteriggioni, mi sono trovato con la bicicletta a fare un tratto sterrato, una così chiamata strada bianca, che rientrava nel famigerato percorso della Francigena, e naturalmente essendo tale dovevo per forza trovare un luogo sacro, una badia o una pieve. Infatti nella bellissima piana, proprio sotto le mura di Monteriggioni in direzione Colle Val d'Elsa si affaccia tra i campi una badia romanica, nel piccolissimo borgo di Abbadia Isola, Ss Salvatore e Cimino. Un piccolissimo borgo quasi disabitato, dove resiste ancora una sacralità genuina, fatta di semplici cose e di preghiere mute e personali per non disturbare la quiete naturale e sovrana che la ammanta.


Purtroppo non ho potuto visitare la chiesa, in quanto non vi era il preposto, ma con il mio spirito “investigativo” fatto esclusivamente di curiosità e spontaneità, sono riuscito a sapere, da quei pochi abitanti del loco, che nella chiesa ormai non esiste quasi più niente di rilevante ma al tempo vi era una bellissima opera pittorica che la Soprintendenza ha ritenuto prelevarla per salvaguardarla tanto era di notevole valore. Nel chiacchierare sono venute fuori anche voci, o leggenda o chissà forse verità , che il quadro non fosse esposto su un altare o su una parete della chiesa, ma che il parroco addirittura perchè non divenisse occasione per ladrocinio, teneva il quadro sotto il suo letto, nella canonica, e a pochi era data la possibilità di poterla ammirare.
Documentandomi poi ho scoperto che tale opera era la Madonna in trono con il Bambino conservata al museo d'Arte Sacra in Colle Val d'Elsa dell'anonimo pittore Maestro di Badia a Isola.
L'opera del 1300 fu considerata in primo tempo, far parte dei lavori del più illustre e famoso Duccio di Buoninsegna, addirittura del periodo giovanile di questo maestro in particolare avvicinata alla Madonna Rucellai. Ma nel tempo si è evoluta la tesi che la tavola, nonostante le somiglianze, non era altro che opera di altra mano, magari un seguace di Duccio, per poi riconoscere da altre opere presenti in altri musei della provincia di Siena, come fautore l'anonimo Maestro di Badia Isola.
Naturalmente, tanta la vicinanza e tanta la capacità pittorica di questi, ha fatto si da riconoscerne il valore se non superiore ma almeno pari al prefigurato Duccio di Buoninsegna.

Roberto Busembai (errebi)

Immagini : Panorama del borgo Abbadia Isola (foto ERREBI) - Maestro di Badia Isola - Madonna in trono con il bambino (Foto web)

martedì 23 giugno 2020

SANDRO VERONESI - IL COLIBRI'

Ho terminato giusto ieri sera il libro finalista al premio Strega, “ Colibrì” di Sandro Veronesi, un libro che avevo intenzione di leggere da quando è uscito e non so per quale motivo mi affascinasse, nonostante non sia poi un estimatore di Veronesi, ma forse il titolo, quell'identificazione nel piccolissimo, laborioso e tenace piccolo uccello, è stata la prerogativa maggiore.
Comunque l'ho letto e posso dirvi che non sono dispiaciuto di averlo fatto, ma al tempo stesso posso aggiungere che fino dal primo capitolo ho odiato, odiato forse è il termine sbagliato, ho disprezzato il personaggio principale, il “Colibrì”
E' un libro ben scritto, scorrevole, che ti prende e ti coinvolge, un libro moderno, forse troppo moderno, ovvero per mio difetto ( che a parere mio personale lo ritengo tutt'ora pregio) io aborro quel tipo di persona, non mi sento in questa società fatta di menefreghismo, di assoluta stabilità emotiva e di tirar su le spallette a quello che mi accade, io non mi identifico in questa staticità emozionale e culturale, io non potrei essere quel piccolo e meraviglioso uccello, che riesce a stare fermo in volo con un settanta battiti d'ali al secondo e ha pure la capacità di volare all'indietro. Io sono ancora, ecco un altro difetto che io ritengo pregio, europeo, “antico” , attaccato a valori e principi, amante del bello e dell'arte, e soprattutto con la cosciente consapevolezza di avere insito in me, in quanto essere umano, la forza e la voglia, il desiderio e il senso di vita, di libertà, libertà a 360 gradi, anche quella che il “Colibrì” di Veronesi , l'uomo moderno, aborra e critica.
Il libro è stato scritto alle soglie del Covid, ma è spaventosamente anticipatore, non tanto del virus in se stesso, ma del concetto di privazione e di distacco tra gli esseri umani che ne è derivato e che ne deriva, anche se non ci fosse stata questa pandemia. Il sociale è virtuale, e l'uomo non avrà più bisogno di uscire, di sentire un concerto, di andare al cinema, di bere un caffè o di ritrovarsi in pub, l'uomo sarà quel “Colibrì” operoso che se ne sta in casa, davanti al computer e da quella staticità lavorerà, penserà, scriverà e “purtroppo” amerà con una concezione d'amore che non si associa “purtroppo” (e per me “per fortuna”) con il concetto attuale che mi ha sempre distinto, anzi ci ha sempre distinto, come esseri umani e non formiche operose, o soprattutto pecore diligenti.
Un libro da leggere e spaventosamente vero e reale, troppo vero e reale da capire i tanti morti e soprattutto da far riflettere e chiederci....ecco perchè tanti morti ANZIANI. Un cambio repentino di società?. Un esimio letterato, di concezione europea, disse: “Ai posteri l'ardua sentenza”.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Copertina del libro

lunedì 22 giugno 2020

SIMONE MARTINI - L'ANNUNCIAZIONE

Talvolta bisogna ritornare a parlare del massimo splendore, dell'opera d'arte massima in se, so bene che ci sono opere famose proprio per la loro magnificenza e che porta perciò a denigrare e a dire “sempre le stesse” ma a volte non si può non ricadere nel doverci avvicinare ad una di queste magistrali opere per ritrovare quella freschezza, quella capacità naturale che un Maestro, un artista, un pittore è riuscito a elargire e a far si che a oggi, ancora si parli d'arte.
Ebbene oggi mi voglio avvicinare proprio a un'opera d'arte che si potrebbe definire la capostipite di tutte, un'opera che non avrebbe nemmeno bisogno di presentazione e non avrebbe nemmeno bisogno di descrizione, è un'opera che parla da sola, che anche il più profano di arte non può non sentire la voce artistica che essa lancia, non può non inebriarsi dello spirito che aleggia e della perfezione che ne emana. Simone Martini con l'Annunciazione e due Santi ha superato la soglia della cognizione d'arte, è volato nell'auree del sogno e dell'aulico e lo ha tramutato in pittura, che dirsi tale pare di dire uno sproloquio, in questa opera si va oltre la concezione di pittura, questa opera è voce e movimento, è incanto e signorilità, è l'immateriale che si materializza.
Un angelo che si prostra docilmente e devotamente inginocchiandosi davanti alla Madonna enunciando parole che non solo si immaginano, ma vengono dettagliatamente inscritte nel dipinto, “ Ave gratia plena dominus tecum” proprio per marcare questo soffio di leggero fiatare, il tutto mentre Maria si atteggia in un movimento di ritenzione, a significare un sottile e timido timore coperto dalla meraviglia della cosa che gli viene annunciata.
Siamo in uno scenario dorato, che sottolinea la santità e sacralità della scena, i capelli dell'Arcangelo Gabriele, le sue ali dai tratti di piume di pavone, la sua stessa veste damascata sono dipinti con polvere d'oro, gli unici soggetti d'arredamento sono il trono dove la Vergine siede e un vaso al centro con dentro dei gigli a significare la purezza. Sopra di loro il dominio della colomba, ovvero lo Spirito Santo.
Dominante in questa scena quasi di chiostro di chiesa, un chiostro che non ha eguali nella realtà ma che si evolve nell'immaginario e nel sogno del Martini, è la luce, la luce che tutto risplende, la luce di Dio, e in questa quasi musicale opera il Maestro ha superato il colui che al tempo aveva apportato il grande cambiamento nella stesura degli spazi e dei personaggi, Giotto, un Giotto che è ancora vivo quando il Martini dipingerà questa magnificenza, dove il movimento dei personaggi e lo spazio che li circonda va oltre la realtà, una realtà che diventa per Martini sogno.
Lo storico d'arte, Giulio Carlo Argan, ebbe a mio parere, la giusta descrizione di questo dipinto asserendo che “ il senso poetico del quadro è quello schivo ritrarsi del colore terreno, davanti alla luce che d'ogni parte l'investe”, una luce che soltanto la Vergine con il suo mantello blu, non emana ma ne viene totalmente assorbita.
L'opera d'arte gotica, venne dipinta da Simone Martini nel 1333 per la cappella di Sant'Ansano nel duomo di Siena (fino a poco tempo fa si attribuiva che avesse lavorato insieme a suo cognato , Lippo Memmi, ma dopo l'ultimo restauro anche si è data certezza che tutto il dipinto, compresi i due santi ( Sant'Ansano e Santa Margherita) siano opera totale del Martini), poi trasferita nella chiesa di Sant'Ansano in Castelvecchio da dove raggiunse la Galleria degli Uffizi per decisione del granduca di Toscana, Ferdinando III di Lorena, e tutt'ora in questa meravigliosa sede.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web : Simone Martini - Annunciazione

venerdì 19 giugno 2020

DELL'OLMO E DEL POMAJO SELVATICO

In una vasta campagna, da tempo immemorabile, dominava una pianta di Olmo, ed era così tanto esteso, così tanto ricolmo di foglie, e così tanto maestoso che era refrigerio e ricovero per i vari Pellegrini con la sua grande ombra, nei mesi caldi e roventi dell'estate. Erano Pellegrini che solitamente attraversavano quel loco in quanto si trovava su un tratto di strada francigena, quella strada che portava al santuario di Roma, alla casa del Signore, e ritrovavano sotto le sue fronde quel refrigerio utile per riprendere il faticoso cammino, specie nei mesi estivi quando il sole cocente esprimeva al massimo il suo potere.
Vicino a questo Olmo vi era nato da alcuni anni, un Pomaio Selvatico, un frutteto, sicuramente nato da semi sparsi nelle primavere ventose e quivi trovato un terreno adatto per riprodursi. Ora a questo albero di frutto aveva invidia del grande Olmo, non tanto per la sua possanza, anche se lui si sentisse inferiore come volume, si vantava di avere appresso dei bellissimi frutti maturi, ma perchè spesso si domandava del perchè i pellegrini scegliessero sempre lui per riposare, quando anche lui stesso avrebbe potuto dare sollievo e refrigerio con le sue foglie, e spesso di questo i due alberi avevano a discutere, ovvero il Pomaio era solito lamentarsi e ingiuriare l'Olmo, il quale con più coscienza non rispondeva e lo lasciava ribollire nella sua rabbia.
Un giorno però capitò un pellegrino che non solo si sentiva stanco e era assai accaldato dal viaggio e dal sole, ma aveva anche un poco di fame, e visto che per arrivare alla prima locanda vi erano ancora dei numerosi passi, vedendo l'albero con i frutti ebbe subito l'ingegno di coglierne uno e di sdraiarsi proprio sotto le sue frasche alla tiepida ombra.
La contentezza e la meraviglia del Pomaio fu talmente grande che subito se ne pavoneggiò con l'Olmo:
Credevi di essere il solo, grande e possente come sei, credevi di avere il dominio solo perchè hai tanti rami e foglie, ma caro mio Olmo, come vedi io ho una cosa in più che posso donare al pellegrino, io oltre a far da ombra come te, posso anche portare ristoro alla sua fame insieme alla sua sete con i miei bellissimi frutti......”
Ma aveva ancora da che lodarsene quando improvvisamente il pellegrino si alzò di scatto da sotto i suoi rami, sputò a più non posso quello che aveva da poco addentato e irato maledisse l'albero di frutti:
Che tu sia maledetto, perchè con la vana apparenza dei frutti credi di ingannare un povero pellegrino, ma il sapore è così amaro, velenoso, selvatico che mi reca altresì dispiacere e rammarico e fuggo pure dalle tue ombre”.
Fu allora che l'Olmo modestamente ebbe a pronunciarsi rivolto al Pomaio:
Amico mio, non basta il donare, perchè il merito del dono non consiste nell'esteriore, ma nel modo in cui si porge e nel bene che ne deriva “.
La morale dettata nella novella ve la voglio trascrivere come impressa nel libro settecentesco:
Spesse volte taluno invaghito di se medesimo suppone prevalere al merito reale di coloro, che si pregiano d'un esteriore comparsa, ma che contenti delle proprie onorate operazioni non fanno pompa di quelle, che abituate nel loro cuore dall'uso di esercitarle, loro sono divenute quasi naturali.
Il maggiore risalto, che possa avere un'azione generosa si è quello di non esagerare il beneficio, anzi di rispondere a coloro, che d'ogni propria azione si vantano, con quella modestia, che dà il condimento a quello che si è operato, e che obbliga a maggior gratitudine colui, che di tale bene è stato partecipe.”
Mia libera rielaborazione tratta da “ Raccolta di varie favole delineate e incise in rame da Giorgio Fossati Architetto” edito a Venezia nel 1744
Roberto Busembai (errebi)
Immagine ERREBI

giovedì 18 giugno 2020

MARIO MONICELLI - UN BORGHESE PICCOLO PICCOLO

In questi giorni è stato ricordato Alberto Sordi e la sua maestria e rocambolesca magia di fare comicità e arte assoluta di recitazione, e anche io voglio associarmi a questo clamore nominandolo e apprezzandolo non solo per il suo sarcasmo semplice e genuino ma anche per il suo essere anche magistralmente attore impegnato e serio.
Il film in questione è del 1977 diretto da Mario Monicelli e tratto dal famoso libro di Vincenzo Cerami, Un borghese piccolo piccolo, dove Sordi interpreta il personaggio clou di tutta la pellicola, un impiegato ministeriale prossimo alla pensione, il signor Giovanni Vivaldi.
La pellicola, come del resto il romanzo, hanno uno sfondo ben marcato di una società corrotta , di una società fatta di perbenismo e di chiaro e sottoscritto nepotismo e servilismo verso i potenti, è una netta critica al sistema che vigeva in Italia nel periodo, a un sistema che tutti, indipendentemente e “volutamente” erano sottoposti a sottostare per sopravvivere, un sistema marcato anche da estremismi violenti divenuti “famosi” come gli Anni di Piombo.
Ma senza farne un documento politico o partitico, il mio interesse è rivolta all'interpretazione di Sordi e al tema del film, un piccolo borghese, Vivaldi, che prossimo alla pensione cerca, come tutti del resto, di poter lasciare un posto di lavoro degno e sicuro al figlio Mario, un figlio particolare, che non ha certo la sfrontatezza del padre, la sua intraprendenza, ma che si è prodigato a partecipare ad un concorso per un posto al ministero, lo stesso dove lavora Vivaldi padre. Ed è proprio questo padre, che farà di tutto perchè il concorso venga vinto da Mario, sarà il padre che si prostrerà ai suoi superiori, arriverà persino a inserirsi in una loggia massonica, dove è certo di trovarci un superiore “amico” che lo possa aiutare.
Gli esami scritti hanno avuto buon esito non resta che l'esame orale, e quell'esame, lo sa bene il Vivaldi, è soltanto un proforma, perchè gli “appoggi” a cui si è dedicato, funzioneranno e Mario avrà il suo degno posto di lavoro, ma tutto era calcolato ma non era calcolato il destino, perchè Mario, accompagnato dal padre, mentre si reca a quell'esame, viene ucciso nel corso di una rapina.
Il padre disperato cerca invano di rincorrere l'assassino, ma lo ha visto bene in faccia e sa bene chi sia.
Il crollo dell'uomo, le sue speranze, le sue ambizioni, il ruolo paterno, insomma tutto crolla, Vivaldi non ha più niente a cui tenere, la moglie alla notizia del figlio morto viene colta da un forte mancamento e rimarrà invalida e assente su una carrozzina, ma Vivaldi ha già in cuore la “sua” personale vendetta. Sordi da questo istante lascia la sua maschera ironica e entra in una recitazione sadica, triste e carica di quella interiorità dolorosa che solo un padre può comprendere, un padre che aveva affidato tutto se stesso per un figlio, quel figlio che quell'assassino, più volte volutamente non riconosciuto dalle foto che la polizia gli presentava, ma che lui invece riuscirà a rapire, portarlo in una baracca vicino al fiume, che spesso usava con Mario quando andavano a pesca insieme, e poi torturarlo piano piano per farlo soffrire e poi portarlo definitivamente alla morte.
E' un dolore immane, è stato uno strappo troppo forte per un borghese piccolo piccolo, abituato al suo piccolo mutuo, al posto fisso, la macchina, alle partite di calcio, al figlio e al servilismo per accaparrarsi “facilmente” ogni cosa.
Grande Alberto Sordi e grande film.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Locandina del film

lunedì 15 giugno 2020

WILLIAM FRASER GARDEN E I SUOI ACQUARELLI (1856 - 1921)


Anche nella pittura, come in quasi tutte le arti, ci sono personaggi che nonostante abbiano un dichiarato talento artistico, non riescono ad essere valutati o conosciuti come tali, vuoi per mancata fortuna, vuoi per destino, ma taluni anche per il loro personale “capriccio” di non darne importanza, ovvero di non essere tanto disposti alla notorietà o forse ( principale causa di ogni artista) non ritenersi poi tanto quel “genio” che da gli altri gli è dichiarato.



Garden William Fraser, che poi trasformò il suo nome in William Fraser Garden per distinguersi dagli altri suoi cinque fratelli, anche loro pittori, fu uno dei massimi acquarellisti del suo tempo, superando a dismisura i suoi citati fratelli. I suoi soggetti furono tutti improntati su paesaggi e vedute di villaggi lungo il fiume Great Ouse, curandone e accentuandone i dettagli e offrendo una luce fresca e trasparente, tale da sentirsi immersi in quello scenario. 




Ebbe poca notorietà ma,come ho detto nella premessa, pareva anche che lui stesso non la volesse e nonostante le sue immense capacità non fu poi così tanto prolifico, aveva una quasi totale mancanza di ambizione e questo suo rigoroso atteggiamento lo portò a essere “sconosciuto” al di la di poche e ristrette persone.
Visse in assoluta povertà, viveva in una stanza su un traghetto a Holywell e in tarda età pare che per pagare le bollette non usasse banconote ma i suoi dipinti.


Ma le sue opere si possono dichiarare vere opere d'arte, capolavori di acquarello di assoluta chiarezza e elaborazione molto dettagliata, vi sono viste pittoresche del luogo di residenza, di antichi mulini e villaggi, paesaggi puliti, il tutto lungo lo scorrere del fiume Great Ouse nel Bedfordshire, contea orientale dell'Inghilterra.


Per me scoprirlo è stato un vero tuffarsi nella natura, una natura fresca e pulita che dona pace e sicurezza interiore, che anima uno spirito leggero, un immedesimarsi in questi acquarelli è di una naturalità estrema che quasi sbalordisce.

Roberto Busembai (errebi)

Immagini web : Alcuni degli acquarelli di William Fraser Garden

martedì 9 giugno 2020

ANTONIO ALLEGRI DETTO IL CORREGGIO - MADONNA COL BAMBINO E I SANTI GIROLAMO E MADDALENA

Nella Galleria Nazionale di Parma, vi sono due tavole del Correggio che si possono dire corrispondenti, che fanno pendant l'una dall'altra, “La notte” ovvero “Adorazione dei pastori” e Il Giorno” ovvero “Madonna col Bambino e i santi Girolamo e Maddalena”. Due opere d'arte di altissimo livello sia artistico che mistico, un'impronta determinante dell'arte del periodo, innovativa come del resto è abitudine del Correggio, che nonostante valorizzi a pieno l'insegnamento dello sfumato di Leonardo, sa dare un suo contributo e un nuovo ordine pittorico agli schemi del Rinascimento anticipando per quasi un secolo le dinamiche del Barocco.
Ho scelto tra le due, il “Giorno” ma non perchè fosse migliore dell'altra ma soltanto perchè ne vedo e ne percepisco una valenza attuale e determinante. Il Maestro, a differenze degli altri grandi come Tiziano e Raffaello, è riuscito in questa opera a eliminare le imposte gerarchie delle figure e i rispettivi troni e simili, ma dando un'impronta di personaggi comuni, un ritrovo di figure familiari che si incontrano felicemente dopo uno svariato e lungo periodo, e il loro forte desiderio è proprio in quell'avvicinamento, in quel rompere le distanze, che li stringe in un caloroso scambio di affetto.
Il
E quanto è mai più grande, adesso, in noi, questo desiderio, questo sentirsi e riscoprirsi dopo mesi di assoluto distacco emotivo e emozionale.
Si noti la Maddalena con quanto affetto e desiderio si avvicina al Bambino, e la brama del sentimento la raccolga nell'avvicinare la guancia alla gamba nuda del Gesù, il bisogno del tatto, del toccarsi, del riconoscersi.
Nella Storia dell'arte, questa tipologia di rappresentazione è denominata sacra conversazione, ma potrebbe benissimo essere denominata tale, anche i nostri avvicinamenti con i nostri cari, l'abbattimento sempre più avanzato delle distanze con i nostri parenti.
Il fattore mistico determinante, sta tutto nella presentazione del grande libro, la Bibbia, che un angelo porge alla visione del Bambino e il quale ne rimane estasiato, tale da darne quasi approvazione. L'importanza è marcatamente segnalata dalla figura in primissimo piano del Santo Girolamo, colui che tradusse in tutta la sua vita, dal cartiglio originale, stretto ancora tra le mani, tutta la Sacra Scrittura, “La Vulgata” ovvero la traduzione appunto dall'ebraico al latino.
Il periodo in cui il Correggio, dipinse questa tela, la Chiesa veniva da poco dalla “rivoluzione” luterana, e anche in Italia la religione protestante aggiungeva sempre più nuovi adepti e si esigeva un'austera cristianità, e lui volle appunto dimostrare con questa, una religione rassicurante e priva di ogni qualsiasi rigidità.
“Il Giorno” così chiamata perchè è proprio la luce di un nuovo giorno che invigorisce e ravviva tutta la scena, una scena raccolta in un piccolo spazio dove trova sfocio, soltanto nel panorama alle spalle dei personaggi, un panorama emblematico e riconoscibile, la colline parmensi dove domina il Bismantova.
La tavola fu dipinta si presume per commissione di Giovanna da Piacenza, che attraverso di lei il Correggio pare avesse conoscenza con Ottavio Bergonzi, una alta e rinomata figura della Parma di un tempo, e perciò elaborata proprio nella cappella gentilizia della famiglia Bergonzi nella chiesa di Sant'Antonio a Parma. Ma, come altre grandi opere italiane, nel periodo napoleonico fu trafugata e portata a Parigi, ma per merito, fortunatamente, di Maria Luigia, l'opera rientrò in Italia e prese così l'attuale dimora.
Questa meravigliosa opera pittorica del Correggio, ha il “peccato” di non “donare” nella sua pienezza nelle foto, è una delle opere che merita di essere vista dal vivo, per apprezzarne davvero l'entità emozionale che arreca.

Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Correggio – Il Giorno o Madonna col Bambino e i Santi Girolamo e Maddalena

giovedì 4 giugno 2020

IL PAESE DI PINOCCHIO






 La fiaba che vi voglio raccontare 
è stato un grande sogno che vi vengo a presentare:
Mi trovo improvvisamente 
in un paese che non sa di niente,
ma è tanto bello e carino 
visto di primo mattino,
si trova sopra il crinale di un basso colle
e da sopra domina di Pescia tutta la valle.
Collodi si chiama, oh questa è bella
come il famoso scrittore che scrisse una novella,
che di Pinocchio così si narrava
e proprio qui il burattino stava.
C'era una volta un re.....così iniziava
e con un pezzo di legno continuava,
tanto che un Geppetto ci fece un burattino
tutto di legno e molto carino,
ma d'indole era monello e tanto furbino
proprio come un bambino,
scappò di casa e dalla giustizia
passando sotto le gambe con furbizia
di un iroso carabiniere
che lo voleva incarcerare.
Con i soldi che Geppetto gli aveva dato
ci andò a vedere i burattini di filato,
e qui ebbe la sua prima avventura
di Mangiafuoco che ne voleva fare una frittura.
Ritornando a casa con cinque soldi
trovò degli amici manigoldi
un gatto e una volpe birichini
per rubargli tutti i soldini,
tanto da inventargli una storiella
che seminando i soldi, questa è bella,
sarebbe nato un albero di zecchini d'oro
da star bene tutti, anche loro.
Ma nella notte due “conosciuti” assassini
presero Pinocchio e in tasca i quattrini,
lo impiccarono a un albero, poverino
e rimase li' fino al mattino,
ma una fatina azzurra venne a salvarlo
e nella sua casa a portarlo.
Ci vollero dottori e sapienti
per guarirlo dai patimenti,
la medicina era però tanto amara
che non bevendola, ci voleva una bara,
e subito accorsero per farne il trasporto
ma Pinocchio bevve e non era morto.
Ma la sua libertà e monelleria
lo istigarono ad andare via,
e dopo avventure e traversie,
si convinse a riprendere le vie
dalla Fatina voleva ritornare
e pure un serpente fece spostare,
ma monello era ancora Pinocchio
che fuggì alla Fata sott'occhio,
e si ritrovò con un amico nullafacente
nel paese dei Balocchi a fare niente,
con le lunghe orecchie, poi diventare
un ciuchino che doveva ballare,
ma rompendosi una gamba, che disdetta,
fu poi gettato in mare in molta fretta.
Ma burattino lui ridiventò, che a galla stava
e nel mare una grossa balena incontrava,
inghiottito che fu il poverino
dentro la pancia però trovò il suo babbino.
Pinocchio non sarà più un maldestro burattino
ma un vero e simpatico bambino.
Questa che vi ho raccontato è la storia che tutti conoscete
ma quello che vi ho rappresentato non so se visto l'avete,
è di Collodi il Parco che per voi ho visitato
e con una sorpresa oggi vi ho presentato.



Roberto Busembai (errebi)

Immagini ERREBI dal Parco di Pinocchio a Collodi di Pescia (Pt)

mercoledì 3 giugno 2020

3 GIUGNO 1963 - MUORE PAPA GIOVANNI XXIII

Alle ore 19.53 del 3 Giugno 1963 la radio Vaticana trasmette al mondo questo messaggio:
“ Con l'animo profondamente commosso diamo il seguente triste annuncio, il Sommo Pontefice Giovanni XXXIII è morto............”
Avevo appena otto anni ma quella figura di prestigio ma al tempo stesso bonaria, umile, buona, quasi un padre e una madre messi insieme, mi davano un senso di felicità e di tranquillità , che certo al tempo non potevo comprendere, ma sentivo comunque che era una figura e un uomo positivo e mi scaldava il cuore. Ricordo che piansi e mi vergognai pure di me stesso, perchè non riuscivo a percepire di come avessi potuto avere quella reazione chè in fondo era una persona a me sconosciuta.
Quando fu elevato Papa, era sconosciuto davvero ai più, si sapeva soltanto che era il patriarca di Venezia, perchè la sua carriera era stata sempre rivolta ai paesi lontani, era un delegato apostolico e aveva trascorso il suo operato per più di vent'anni tra Sofia, Atene e Istanbul.
Ma appena divenuto Papa Giovanni XXIII , Roncalli divenne subito famoso a tutti per la sua goffaggine fisica e per il suo sguardo bonario e semplice, entrò subito nel cuore di ogni popolo, cristiano o no, la sua figura e il suo gentile atteggiamento che stonava con il rigore del Papato, era un uomo nuovo, un fratello, un comune apostolo che presiedeva un ambito posto, ma che lo donava e lo condivideva con i suoi fedeli, con la più assoluta naturalità da intenerire e far tenerezza.
E comunque nonostante la sua docile espressività e modo di fare, aveva una ricchezza interiore e apostolica interiore tale da reggere degnamente e con assoluto tempismo e decisione, tutto l'apparato della Chiesa, arrivando al culmine del suo grande operato con l'istituzione del Secondo Concilio Vaticano , che annunciò il 25 Gennaio del 1959 nella basilica di San Paolo davanti a un collegio di cardinali. Un Papa dal sorriso dolce e dalle parole calde che lasciava un'impronta profonda del suo “breve” passaggio.
Al termine dell'apertura del Concilio, la sera dell'11 ottobre 1962, alla fine del discorso pronunciato dalla finestra di Piazza San Pietro ebbe a dire una frase che resterà impressa nel cuore di coloro che ebbero, me compreso, la fortuna di viverla e sentirla:
“ Tornando a casa, date una carezza ai vostri bambini e dite questa è la carezza del Papa”.
C'è una norma molto rigorosa, quando muore un Papa, per il suono delle campane di San Pietro, una norma che risale addirittura da Sisto V.Il campanone rintocca nove volte consegcutive, i rintocchi cadono sulla piazza a gruppi di tre con una pausa tra un gruppo e l'altro, ed è in questi momenti che l'allora Piazza San Pietro vide la commozione e il dolore di tutti i fedeli e non, fedeli che per giorni avevano vegliato e sperato in un miracolo di guarigione.
Poi una dopo l'altra si muovono le altre campane, campane che ognuna ha un nome specifico: il campanoncino, la rota, la Maria, la chiacchierina e la Maddalena.
E così per nove lunghissimi giorni consecutivi; all'alba, a metà mattina, al vespro e alla sera e mai come allora quelle campane avevano colpito nel cuore dei Romani tutti.

Roberto Busembai (errebi)

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martedì 2 giugno 2020

RAFFAELLO SANZIO - MADONNA CONESTABILE O DEL LIBRO

E' l'anno di Raffaello, un anno che pare gli sia quasi a pennello per le traversie che ci ha incorso, quasi a rimembrarci le scorribande, le “scappatelle” e combutte che il Maestro era spesso artefice e che furono poi una tra le tante cause della sua giovane scomparsa. Ma di Raffaello rimangono opere e magnificenze talmente spettacolari, così gentili e delicate, talune possenti e forti, ma tutte dovute con un'assoluta signorilità che non paiono affatto derivate dal quel contrastato uomo che dice che fosse, tanto da lamentarsene persino il Vasari.
L'opera di oggi è una delle prime opere giovanili, che di sicuro non sappiamo ancora se attribuirla al periodo umbro, quando ancora era allievo del grande Perugino, o del suo primo trasferimento a Firenze, comunque sia questa opera pare ricalcare lo stile del maestro umbro, ma la maestria dell'allievo lo supera già con le prime pennellate.
La madonna del libro o Conestabile, è un piccolo dipinto, tondo, su tavola, poi alla fine dell'ottocento fu traferito in tela, di cui Raffaello ha progettato pure la cornice che lo adorna. Un piccolissimo quadro dove la figura delicata e materna della Madonna pare trovi adattamento proprio alla curvatura della tavola, nel suo leggero chinare di testa guardando il bambino che tiene in braccio, porgendogli cautamente un libro. E' un emblematico gesto che ci riporta alla periodo della passione e del sacrificio del Cristo, già profetizzati nelle Sacre Scritture, gli stessi colori della veste di Maria, accesi e ben definiti, parlano da soli, il rosso a ricordare lo strazio della passione e il mantello blu con riferimento alla Chiesa universale. E' già un'opera che denota la caratteristica essenziale di Raffaello l'armonia, un armonia caratterizzata dai forti colori e dai gentili e delicati tratti su uno sfondo di colori freddi, di un paesaggio tipicamente tosco – umbro dove spiccano alcuni alberelli di diversa lunghezza, a determinare lo spazio e la lontananza, un piccolo laghetto e quelle montagne innevate sotto un cielo leggermente azzurro da incutere timore che possa, il tutto, disfarsi al solo guardare. Maria è rappresentata nella pienezza della sua gioventù e con una fisionomia da farla apparire bellissima, come giovane e bello è il mondo che la circonda.
Quando la tavola fu trasferita in tela, Raffaello ci ha tramandato un ulteriore messaggio, infatti risulta nel disegno iniziale, che al posto del libro, vi fosse disegnato un melograno, simbolo caratteristico dell'arte cristiana della resurrezione.
La cornice che contiene la tavola – tela fu realizzata in conformità ai disegni proprio di Raffaello, ornamenti grotteschi tipici del periodo, ma che rientrano con spessore nel cosiddetto sviluppo armonico che solo il Maestro ha saputo sempre trarre dai suoi dipinti.

L'opera purtroppo non ci appartiene più, la storia ci dice che inizialmente l'opera facesse parte dei possedimenti della famiglia Alfano di Diamante, un erudito banchiere discendente dalla celebre famiglia Severi di Sassoferrato, che ebbe a intrecciare rapporti d'interesse con Papa Alessandro IV, tale poi da portarlo ad ottenere l'incarico di vicetesoriere nella tesoreria pontificia di Perugia fino a divenirne poi Tesoriere della Camera apostolica d'Umbria. E fu proprio per questi prestigi che la tela entrò in suo possesso fino ad arrivare al XIX secolo nelle mani dei conti Conestabile di Perugia, che collocarono l'opera nel loro palazzo. Ma alla fine dell'ottocento l'unico erede, il conte Scipione Conestabile, dovette mettere in vendita il dipinto, che nonostante si desse da fare perchè rimanesse in Italia, data l'esosa richiesta non possibile all'allora “nuovo” Regno d'Italia, fu acquistato dalla moglie di Alessandro II di Russia e dove tutt'ora si trova, a Pietroburgo, nel maestoso museo dell'Hermitage.

Roberto Busembai (errebi)
Immagini web: Raffaello Sanzio – La madonna Conestabile o del libro.