venerdì 28 febbraio 2020

LA LEPRE E I SUOI AMICI

Un critico dell'800, scrisse a proposito delle favole su gli Annales litteraires:
“Tutti coloro che hanno scritto favole dopo La Fontaine assomigliano a coloro che hanno costruito delle piccole capanne ai piedi di un edificio che si innalza al cielo; la capanna di Florian è costruita con più eleganza e robustezza rispetto alle altre e le domina di parecchi gradi!”.
LA LEPRE E I SUOI AMICI


Quante volte vi sarete incontrati, camminando per boschi e per prati, con una lepre che furtiva vi attraversa il cammino o nascosta e solerte si ciba dei frutti della natura e vi sfugge al primo vostro sottile respirare. Ebbene una volta, una di queste buone, affettuose e gentili bestiole aveva un gran desiderio, di avere intorno a se tanti amici e non dava adito a quello che altre sue simili dicevano in proposito: “ Amici miei, non ci sono purtroppo amici!”.
Ma lei appena uscita dalla sua tana incontrava sempre qualcuno e per questi cercava sempre di essere gentile e servizievole, ora incontrava un coniglio, suo cugino di razza, e magari lo invitava nella sua tana:
“ Vieni cugino nella mia tana, ho preparato una buona colazione”
Oppure scorgeva uno di quei cavalli ancora liberi nei campi e si prodigava a informarlo:
“ Conosco un laghetto qui vicino che ha acque così limpide e leggere da cui puoi abbeverarti tranquillamente, seguimi che ti insegno il luogo”.
E così faceva con tutti gli animali che aveva ad incontrare, cervi, daini, tori e tanti altri e con essi era sempre gentile e premurosa, si mostrava compiacente e pensava che un giorno ne sarebbe stata ricambiata.
Avvenne che una mattina, appena uscita dalla tana, sentisse un gran fragore e un suonar di corno, che si avvide del grande pericolo che le accadeva, un branco di cani erano stati liberati per la sua caccia, uomini con fucili li seguivano per sparare al primo muoversi di animale, e a lei non restò che iniziare a fuggire con tutta lo forza e il fiato che possedeva e questi dietro senza darle tregua.
Cercò allora riparo nel bosco e incontrò il cugino coniglio a cui chiese riparo nella sua tana, ma questi con la scusa che sua moglie aveva partorito da poco tanti coniglietti, non vi aveva posto per darle riparo, e allora con il cuore in gola continuò il suo stressante correre quando trovò un toro, uno di quelli a cui aveva sempre portato rispetto e donato piacere, chiese di nuovo aiuto ma questi, con finto rammarico, gli spiegò che già aveva da lottare per proteggere i suoi figli, due giovani vitelli e non poteva badare a lei.


Così fu con altri animali che incontrava nel suo affannoso tentativo di riparo, con i cani dietro attaccati al suo fiato, nessuno di coloro a cui le si era dedicata con tanto amore, ora gli dava ascolto e aiuto, quando capitò dietro un grosso cespuglio e vi trovò due caprioli, anch'essi al riparo dai cacciatori e dai cani. Uno dei due si sollevò e con uno scatto invidiabile uscì dal nascondiglio e iniziò a correre così da turbare un attimo il fiuto dei cani, che lasciato quello della lepre, si dedicarono a quello più invitante, una preda davvero invidiabile. Il capriolo trascinò dietro di se i latrati dei cani, zigzagando tra gli alberi e i folti cespugli per poi ritornare alla nascondiglio iniziale dove una volta raggiunto, l'altro capriolo prese a correre come il suo pari e così in eguale maniera ritornò a sua volta al riparo e ancora l'altro che si era riposato riprese la corsa, e in questo scambio di ruoli la lepre ne rimaneva affascinata, sorpresa e sbigottita. La cosa andò avanti quasi fino a sera finchè i cacciatori ormai delusi e i cani stremati abbandonarono la magra caccia e i due caprioli poterono così riposare. La lepre non potè che compiacersi dei due compagni e disse:
“ Come siete stati bravi! E come vi volete bene! L'amicizia è una grande cosa! Anche io, sapete, ho tanti amici, ma oggi......”
“ Tanti amici?” la interruppe uno dei caprioli “ Tanti amici?......Oh, basta uno solo, ma vero e sicuro.”
Morale: “ Soltanto nella sfortuna si afferma la forza umana, e la fedeltà dell'amico si sperimenta soltanto nella tempesta” (Korner)
Mio libero adattamento da “Fables” di Jean-Pierre Claris de Florian
Roberto Busembai (errebi)
Immagini web by gallica.bnf.fr

giovedì 27 febbraio 2020

INTERVISTA A......(Forse è un sogno)

Forse è un semplice sogno, fatto in una notte magari agitata, un qualche cosa insito nel cuore che rovina come un mestolo dentro la pentola piena, o forse un mero desiderio che scivola leggero, un miele posato su una semplice fetta di pane, e comunque non cerco di darne ragione ma prendo soltanto quello che ne viene e scrivo quello che mi è venuto da fare e a voi , a chi certo lo vuole e ne trova piacere, lascio il gusto di leggere e lasciarsi catturare, non dalle mie parole ma dal pensiero di colui che parla in mia vece e che lo ha fatto davvero, lascio a chi lo vuole, a chi crede e soprattutto a chi non è credente ma sa riconoscere il bene dal male.
Camminavo, assorto nei miei fugaci pensieri, tra i campi verdi della mia regione, in un giorno tiepido di primavera, cercando di lasciarmi condizionare dalla stagione e dai colori, liberando la mente da inquinamenti di cose e persone, da macchine e uffici, da vizi e rancori, soltanto posando
un passo leggero dopo l'altro su quella strada sconnessa di sassi sparsi come semina gettata e buche nel terreno ancora umide di residuo bagnato di piogge lontane. Era un viaggio nella mente più che un camminare di gambe, il tragitto sarebbe stato breve, tra un borgo vicino e il suo limitare di un fiume che già ne intravedevo le rive, quando una figura si stagliò decisa, un poco più distante, quasi al limite di quelle acque che avrei presto sfiorato. Pensai subito a un Certosino, uno di quei tanti frati di un monastero nelle vicinanze , che solitamente usavano camminare in alcuni momenti del loro fare e pregare, ricordo che da bambino ci era stato insegnato un modo di dire alla loro visuale “ che se si trovava un Certosino (passeggiare vicino al fiume), sicuramente il cambio del tempo era vicino” e chissà, ma davvero, presto avrebbe piovuto. Mi avvidi , però, che non indossava il classico saio bianco avorio del loro ordine severo, era una figura di un uomo, con un saio marrone, un frate mi sovvenne di pensare, e piano piano si avvicinava al mio cospetto, con un andamento spavaldo e sereno, quasi, come me, si librasse del panorama e della stagione.
Fummo presto a due passi, l'uno dall'altro ed ebbi a vederlo nel viso quell'anziano signore, era un umile frate dal volto scarno e smagrito, che le rughe segnavano il tanto tempo trascorso, una barba rossiccia mista da un pelo bianco lucente, contornava il viso e ne dava un aspetto importante, ma aveva due occhi brillanti e vivaci, sereni e puliti, quasi innocenti, uno sguardo direi da bambino che era un controsenso su quel volto anziano e emaciato.
"Buongiorno"....una calda voce profonda ebbe a salutarmi
"Buongiorno" ...risposi quasi meravigliato e sorpreso del suo agile e giovanile fare, quasi a sembrare straniero nel suo corpo denutrito e scheletrico.
"Che bella giornata vero? La primavera è sempre bella anche se fosse piovuto."
"In effetti è vero"....(mi aveva colto di sorpresa questa sua disponibilità nel voler parlare, ma al contempo ne ebbi piacere e continuai) "Quando ci sono queste giornate ne approfitto sempre per trascorrerne un poco in solitudine e pensare."
"Bravo, soltanto così si può apprezzare quello che ci è stato donato. La vita ci offre ogni bene ma siamo noi a farlo diventare diverso e a trasformarlo nel peggiore che possiamo."
"L'uomo crede che tutto sia scontato."
"La vita non la è. La vita è un dono e come tale bisogna portarle il rispetto e la devozione che ogni cosa donata ne richiede. Basterebbe illuminarsi spesso nel volto di un bambino per ritrovare la risposta. L'innocenza che gli compete, già di per se, è la gratitudine al suo stesso vivere al momento."
"Avete delle belle parole, padre......?"
"Chiamatemi come volete, un nome è soltanto un identificazione, ma se proprio volete farmi felice, scegliete per me un nome altisonante e comune, uno di quelli che al solo nominare si illuminano le menti....."
"Mi verrebbe di chiamarvi con un solo nome che potrebbe sicuramente competervi, per gli abiti che portate e per le parole che usate.....vi chiamerò Francesco se avessi da chiamarvi ancora."
"Voi avete osato troppo, forse, quel nome lo sapete che è il massimo che potete offrire a un semplice frate....quello non è un nome, Francesco è un'entità nel cuore, un volo di gabbiani nell'anima, un raggio di sole nella mente, una nuvola bianca nel camminare, un bene che soltanto il Dio superiore può superare."
"Ora mi fate arrossire, non volevo offendere....."
"Ma non avete offeso, anzi ve ne sono altamente grato e sono contento di questa vostra scelta perchè ciò significa che lo avete comunque nel cuore, e avere riscontrato in me, questa qualità vi deve rendere felice."
Poi ristette in silenzio, quasi in contemplazione e subito riprese:
"Se avete tempo potremmo riposare insieme su quella panchina?" E indicò una panchina in legno che sinceramente non credevo esistesse, eppure attraverso spesso questo tratto, e dal colore consunto e roso pare che sia esistita da tanto.
"Con piacere".....E ci sedemmo con piacevole disinvoltura, devo ammettere che mai mi ero trovato a chiacchierare con tale compiacimento con un frate, a volte mi era capitato di farlo nelle varie abbazie o conventi famosi, ma solo per compiacermi del luogo o soltanto perchè essi fungevano da guide per visitare i luoghi.
"Il riposo è doveroso" Riprese a parlare "e rispettoso verso il nostro corpo, sapete, non si deve mai pretendere oltre, ogni cosa di noi ha un suo valore e una sua proprietà che con il passare del tempo, però, cambia e diventa diversa e più fragile, e ogni minimo accadimento potrebbe guastarla, sta a noi nel rispettarla e accettare questo decadimento."
"Se permettete, non so gli anni che portate, ma avete uno sguardo giovanile che sorprende sul vostro corpo maturo."
"L'anima non invecchia!"
Devo dire che talvolta le sue affermazioni mi lasciavano interdetto, avevo verso questo fraticello un senso di avvicinamento ma al contempo sentivo come un distacco, un rifiuto, a volte le sue parole sembravano dettate categoricamente e stonavano nell'abito che indossava e nel suo umile modo di fare.
"Vi spavento vero?"
(Leggeva pure nel pensiero?) "Perchè dite questo, non mi spaventate, direi mi sorprendete."
"Credetemi non voglio arrecarvi danno alcuno, spesso rilascio parole e pensieri quasi come dottrina, ma non è nelle mie intenzioni, è che vengo rapito da una ricerca continua interiore e ne esco quasi con forza, per liberarmi e lasciarmi andare. Vivo in continuo soffrire del mondo che mi circonda e ne assorbo la luce e il sapore, il rumore che sovrasta e il silenzio che squarcia il dolore. Quando ero giovane credevo che l'unica cosa che poteva far felice un uomo, fosse la ricchezza e lo star bene, baldorie e divertimenti, quando si è giovani non si apprezza la forza e lo stare in salute, lo si ha solamente e se vi si abbina un valore terreno, allora diventa l'oppio del momento e ce ne droghiamo."
"Posso dirvi una cosa? Il vostro parlare mi rende sereno e sono grato di avervi incontrato"
"Io sono grato di avervi incontrato, non per la mia solitudine dei giorni, ma per sapere che posso ancora parlare a chi ha voglia di ascoltare. Avevo ragione quando insieme ad altri miei confratelli, dicevo che l'uomo non perderà mai il desiderio del bene, forse lo tramuterà, lo offuscherà, ma sono sempre stato certo che prima o poi lo avrebbe risollevato e cercato. Voi ne siete un piccolo esempio, perchè come me vi siete trovato in questo naturale ambiente, e avete iniziato, forse anche inconsciamente, ad amarlo e a provarne piacere, e l'avendo trovato un qualcuno che come voi godeva di queste cose, ne siete rimasto estasiato."
"Sono un peccatore come tanti, credetemi, non ho niente di particolare."
"Siete un uomo come tanti, come me, come tutti. Il peccato è l'altra parte dell'anima, quella che si nasconde e che non trova la forza di uscire, ma il peccato non sarà mai grande e tale perchè ha sempre l'altra faccia dominante che è il perdono di se stessi, il sapere cosciente di fare del male e potersi così redimere e ritrovare la pace interiore. Anche io ho peccato, e pecco tutti i giorni nel desiderio di mangiare, Dio non vuole che abusiamo, il piacere è il nostro diavolo interno, il piacere inteso come godimento di ogni cosa e lo sproposito nell'abusarne. Dobbiamo essere lieti di vivere, di conoscere il cielo e il mare, gli uccelli nel cielo e i pesci nelle acque, gli animali della terra e tutti i suoi frutti che ci vengono elargiti, e dobbiamo porsi in riverenza continua per tutto questo immenso che usiamo ogni giorno che Dio ci ha dato di usarne."
"Ora mi sento davvero piccolino di fronte alla vostra grandezza interiore."
"Non mi gratifichi tanto, sono anche io un comune mortale, ho adorato con tutto il mio cuore quello che Dio ci ha donato, ho abusato da giovane come vi ho narrato, ma ho sofferto nel bene procurato e nel trovare il male in ogni angolo del mondo, ho visto morire nelle malattie più dolorose che l'uomo potesse sopportare e ho cercato di alleviarne in questi portatori, la tristezza interiore e la solitudine immensa che si sono trovati a doverne subire, perchè l'uomo malato arreca rifiuto a quello sano, perchè difficilmente si viene a capire che proprio in quel disgraziato momento, l'uomo che soffre ha più bisogno di essere amato. Carestie, guerre, malattie allontanano l'uomo rendendolo sempre più solo. Non ci sono pandemie che fanno più paura della solitudine di una sola persona che soffre e che non trova sollievo interiore!"
"Se avessi perso questa grande occasione, sapendolo, me ne sarei dispiaciuto e sofferto per tutta la vita, voi siete un angelo caduto dal cielo, stamani mi avete davvero reso felice come difficilmente l'ho provato davvero."
"E pure io ne sono altrettanto felice e ora devo proprio lasciarvi, voi riposate ancora un momento perchè io nel lasciarvi vi veda ancora sereno e felice su questa panchina, perchè il mio andare non sia dispiacere ma soltanto un sereno distacco da un qualche cosa di lieto. E se avrete a incontrarmi, vi prego, continuate a chiamarmi con il mio vero nome.....Francesco io sono".
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web

martedì 25 febbraio 2020

REBECCA MAKKAI - L'ANGOLO DEI LETTORI RIBELLI

Penso che non si debba sempre parlare di libri che hanno una notorietà tale che a volte, stanca pure il nominarli, certo fa piacere sapere di avere letto emblematici tomi che rilasciano nel cuore e nell'anima, ma sopratutto nella mente e nell'archivio personale intellettivo, un segno e un'impronta indelebile. Ma talvolta io penso che dovremmo, in qualità di lettori, avvicinarci anche a libri che magari non hanno tutte le proprietà per divenire un capolavoro, ma che hanno comunque un qualche cosa da lasciare impresso nello scorrere del tempo, magari non hanno particolarità espressive e descrittive di cui invece voi ne siete particolarmente affascinati, ma forse anche un piccolo accenno penso possa servire anzi a far camminare la nostra fantasia, magari non trascinano con le parole e con lo scrivere un determinato personaggio o una specifica azione come siete soliti invece leggere e farvi partecipi, però se si delinea il personaggio penso che non necessariamente sia dovuta una particolareggiata descrizione e ugualmente per una specifica azione o evento a volte basta il solo nominarlo e darne una sommaria descrizione per aprire in noi una soglia di sentimentalismo o partecipazione. Perchè tutta questa tiritera iniziale, vi domanderete, perchè oggi voglio accennarvi un libro che non ha avuto quel successo sproposito di tanti, e forse (non sono io che posso permettermi di giudicare) non lo è idoneo per ottenerlo, però è un libro che a me particolarmente ha dato quel pizzico di pensare, ed è bastato a farmi ragionare, implicare e riconoscere il mio comune vivere in proposito della libertà e anche del saper leggere per potersi davvero estraniare dalle controversie naturali e non della società.
La storia semplice e quasi scontata, parla di un ragazzino, Jan Drake, di 10 anni che ama leggere in modo esponenziale ma la cui famiglia assolutamente non è di quel pensare, naturalmente libri da ragazzi ma la madre persino un semplice Harry Porter ritiene “deleterio” per il suo ragazzo. Un giorno viene a conoscere una giovane bibliotecaria, Lucy Hull, discendente da rivoluzionari russi, che lavora nella biblioteca comunale proprio addetta alla sezione ragazzi e pure lei ossessivamente amante lettrice.
Tra i due nasce quell'idillio che neppure tra due amanti a volte è quasi impossibile, hanno in comune, oltre il desiderio di leggere, anche quello di voler sbirciare tra le pagine finali di ogni libro, tanta è la loro fame di conoscenza, ma tutte e due hanno un bisogno comune, quello della libertà, quello di liberarsi delle cose che li opprimono, come la famiglia per lui, e un passato per lei e questo bisogno cresce sempre di più giorno dopo giorno fino ad avere un risvolto. Jan, saturo di libertà di lettura, vuole assaporare quella vera e si fa “rapire” dalla bibliotecaria, per così vivere davvero un loro momento per ritrovare definitivamente se stessi.
Come ho detto sopra, penso che a questo libro manchi quella sottile velatura che lo identifichi, quel tocco in più per farlo divenire avventuroso, per arrecargli quel brio e quel pizzico di sentimento che forse ne avrebbero costruito un capolavoro, ma nonostante tutto io credo che abbia comunque il dovuto rispetto della lettura, perchè poi la libertà di cui parla e di cui questo è il tema principale, invece dei libri in se stessi come potrebbe apparire, è così “leggermente” descritta da farla “enormemente” desiderare a chi legge.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web : Copertina del libro

PIETER BRUEGEL IL VECCHIO - PROVERBI FIAMMINGHI

L'opera che ho scelto oggi è a mio umile parere, di una forza descrittiva molto attuale, sia per la disarmonia rappresentata, tipica del Maestro, e sia per il forte messaggio che ne scaturisce.
“Proverbi fiamminghi” è un dipinto a olio su tavola, autografato di Pieter Bruegel il Vecchio, che al primo impatto visivo e a lettura veloce, rappresenta un disarmonico insieme di persone e cose, figure e animali a descrivere una moltitudine di famosi proverbi, aforismi, motti allora in uso popolare facenti parte del folklore nordico, pare ne siano stati riscontrati e riconosciuti ben 118. Ma il messaggio importante e determinante che il Maestro evoca in questa opera, e che già dai contemporanei artisti dell'epoca fu riscontrato e apprezzato, basti pensare al grande artista e celebre miniaturista Giulio Clovio che ne ebbe punte di stima e riconoscimento come tanti altri, è la denuncia al disordine morale e politico della sua terra che Bruegel ha ben descritto “attraverso” il motivo del folklore. Ma nonostante il disordine che sembra apparire, c'è un preciso ordine, i proverbi sono divisi in due categorie, il primo riconoscibile grazie al mondo alla rovescia è lo specchio dei falsi valori cui si regge la società, il secondo sono i proverbi che evocano la frode e l'ipocrisia, emblematica la figura centrale della donna che copre il marito con il mantello, mentre nella realtà lo tradisce. Sono rappresentate allora non i motti e proverbi ma il loro significato maggiore che nascondono ovvero le assurdità delle azioni umane in un mondo totalmente senza Dio. Da notare che il primo titolo del dipinto era “ Le Monde renversè”.
Non sto ad elencare i 118 proverbi o motti riconosciuti ma per far capire meglio il messaggio del Maestro ne evidenzio qualcuno. ( Vedi seconda immagine con numeri evidenziati) 


1 Fare la barba al matto senza sapone = Approfittare della stupidità della gente
2 Riuscire a vedere attraverso una tavola di quercia purchè dentro ci sia un buco = Essere capaci di tutto, ma soltanto a parole
3 Aversela a male perchè il sole si riflette sull'acqua = Avere invidia
4 Portare luce al giorno con una cesta = Divulgare notizie che andrebbero ignorate
5 Orinare sullo spiedo = Insultare a morte
6 Far ballare il mondo sul pollice = Ingannare il mondo
7 La scopa è messa fuori = I padroni sono fuori
8 I porci scorrazzano nel grano = Non c'è nulla che vada bene
Roberto Busembai (errebi)
Immagini web : Pieter Bruegel il Vecchio " Proverbi Fiamminghi"

domenica 23 febbraio 2020

22 FEBBRAIO 1300 - BONIFACIO VIII "INVENTA" L'ANNO SANTO

Alla vigilia dell'anno nuovo, già dal 24 sera del 1299, un impressionante onta di cittadini romani con altrettanti pellegrini di altre città si accalca nella basilica di San Pietro fino ad avere una capienza tale da riempire la zona antistante fino al ponte di Castel Sant'Angelo. E' una folla, che a sentita di alcuni cardinali incorsi per capirne la motivazione, che diffonde voce che “ chi si fosse diretto alla tomba di San Pietro (principe degli apostoli) avrebbe avuto la cancellazione di tutti i peccati”. Il Papa, allora Bonifacio VIII, appena saputa la richiesta, si prodiga a consultare gli antichi libri per trovare traccia di una simile verità, ma non trova niente in merito o perchè è andato perduto o perchè la cosa non è poi così vera e che sia invece più un'opinione.
Ma la calca non diminuisce e le richieste sono sempre più acclamanti, tanto che si arriva al primo dell'anno del 1300 e si consolida la richiesta asserendo tra il popolo che “nel primo giorno del centesimo anno si sarebbe cancellata la macchia di tutte le colpe e chi avesse raggiunto, e questo fino ai due mesi successivi, la tomba del santo Apostolo, avrebbe ottenuto un'indulgenza di cento anni”. A dare maggiore credibilità pare che fu l'intervento di un anziano di circa 107 anni che asserì di essere stato cento anni prima pellegrino nella città di Roma, portato da suo padre, proprio per far si che ottenessero l'indulgenza e ricordando anche che non vi era limitazione, per tutti i giorni di quell'anno chiunque fosse arrivato avrebbe potuto lucrarne.”
Roma si riempiva sempre più di “forestieri” anche perchè ormai eravamo giunti al 17 gennaio e come consuetudine si voleva essere partecipi e presenti all'annuale processione del velo della Veronica, la reliquia della passione di Cristo, e in più si chiedeva a voce univoca che il Papa si pronunciasse definitivamente in merito alle richieste di quei giorni.
Il Papa era sicuro che non esisteva niente in merito, ma capiva anche che non poteva disilludere il popolo credente, allora con la massima teatralità, tipica degli allora Papi nel proclamare qualche spettacolare evento, Bonifacio VIII, affiancato da i due cardinali superiori, si affaccia alla loggia del Patriarcato e legge al popolo la bolla “Antiquorum habet fidem” con cui indice l'Anno Centesimo d'indulgenza, facendosi promotore della volontà del popolo. Indulgenza poi nominata plenaria, che viene concessa a quanti, confessati e pentiti dei loro peccati, fanno pellegrinaggio alle basiliche di San Pietro e di San Paolo per 30 giorni (se cittadini di Roma) o di 15 per i forensi e viene prescritta come uso di preghiera, di assistere all'esposizione della Veronica.
L'Anno Santo, anche se ancora non è così chiamato, è inventato che già da questo primo indetto porta nelle casse del Vaticano circa 50.000 fiorini, da sottolineare che in quel frangente il Papa, i pellegrini accorsi sono incalcolabili, e in più subentrano problematiche igieniche e il diffondersi di malattie è altissimo, al punto tale che lo stesso Papa, invece di andare incontro a questo popolo credente e di essergli vicino, si trasferisce nella sua bella e fresca dimora di Anagni onde evitare di poter essere contagiato. Tra i pellegrini celebri, i vips dell'epoca, si possono nominare il conte di Valois, fratello del re di Francia Filippo il Bello con la nobile compagna Caterina, nipote dell'imperatore bizantino Baldovino, il re d'Ungheria Carlo Martello e pure una rappresentanza dell'ambasciata dei Tartari Cassano.
Nella basilica di San Giovanni in Laterano, nella navata destra, circa a metà, si trova un affresco, attribuito al Giotto di Bondone, in cui è raffigurato Bonifacio VIII con i due cardinali che legge la suddetta bolla. L'intera bolla è incisa su una lapide murata, che oggi troviamo in alto a sinistra della Porta Santa della Basilica di San Pietro.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Attribuito a Giotto - Affresco del Giubileo di Bonifacio VIII in San Giovanni in Laterano a Roma.

martedì 18 febbraio 2020

ANDAVA SPESSO A CAMMINARE

Andava spesso a camminare nel giardino comunale, un piccolo ritaglio di terra, decorato di fiori, alberi, erba e tante panchine, tra case e finestre a guardare, quasi puntassero gli occhi invidiosi
a quel piccolo pezzo di natura che con ardore si faceva spazio tra mura e rumori di auto a passare.
L'eta era avanzata, o così la volevano identificare, gli altri, quelli che ancora pensavano che la vita fosse eterna per il loro star bene e potere correre e pensare, ma la voglia e l'ardore era uguale, forse migliore, perchè non c'era più la paura di potere sbagliare, l'età era matura, ecco la giusta parola, matura di potere decidere, capire e giudicare, e comunque con la flemma dei movimenti, voluta da un incipiente dolore delle ossa, deterioramento di ogni persona dal lungo passato, camminava appoggiato ad un nodoso bastone in legno curato, ultimo dono prezioso di colei che il camminare gli era stato da tempo negato ma che aveva imparato a volare, e passo dopo passo, scelto e minuzioso posare del piede per non perdere un equilibrio che il suo corpo ormai vacillava a tenere,
equilibrio che invece esisteva nel cuore e nella mente, che avrebbe potuto persino correre nel pensare come un vento che passa e attraversa nelle giornate di tempesta, e piano piano, con il battito di un cuore malato si posava quasi stanco alla prima panchina vuota che poteva arrivare.
Andava spesso nei primi pomeriggi, anche se non erano piene giornate di sole, erano quelli i momenti che poteva abbandonare i suoi pensieri di fatica giornaliera, alzarsi con il peso degli anni nel corpo, muoversi piano per potersi un poco lavare, poi pasticche a non finire, quella prima, quella mentre e quella dopo la colazione, colazione di una fetta di pane con orzo diluito in una tazza di acqua calda per poter colorare di nero un caffè ormai lontano e straniero. Poi i silenzi del giorno a passare, le tende tirate, le finestre socchiuse alla luce che voleva intransigente penetrare, la poltrona che aspetta il suo possente riposare, un giornale o un libro accanto lieti di farsi leggere ancora nonostante gli occhiali, e si arrivava al pranzo fugace, un qualcuno vicino, una mano pietosa, un dolce persona che gli preparava sempre su una tavola a malapena apparecchiata da posate e un piatto fondo, dove tutto si poteva gustare, dal brodo alla carne lessata, dalla frutta, pera o mela senza stagione. E finalmente si poteva uscire a godere del mondo, dell'aria malsana ma che non importava se era inquinamento o soltanto nebbia, pulviscolo di scorie, era aria lontana che riempiva ugualmente il respiro affannoso che non avrebbe certo inquinato, ormai, i suoi grinzosi polmoni.
Andava per vedere la gente, sentire il brusio delle persone che ancora avevano voglia di ridere e scherzare, persino un litigio a lui pareva uno scambio d'amore, uno scambio di opinione da tenere saldati i contatti, e poi i tanti e tanti bambini, gioia e futuro, innocenza del mondo, quella sarebbe stata la vita che avrebbe voluto tornare, avesse avuto l'occasione. I bambini hanno il sorriso negli occhi e nel cuore e non possiedono odi e rancori, sono la frutta che matura sull'albero e si colora ai raggi del sole, e in questo pensare di ogni giorno lui sapeva rivivere i canti delle lucciole perse nei campi nelle sere di Agosto, le cicale sugli alberi che non si potevano chetare, i pettirosso che audaci combattevano gli inverni di neve e le rondini, quelle che sotto i tetti delle case in campagna costruivano il loro futuro in nidi fatti di cose e lui tutte queste cose tornava a giocare con gli occhi guardando e ascoltando i giochi infantili di bambini sospesi sulle altalene, sugli scivoli in ferro a caduta su sabbia trasportata, nei loro segreti di aerei che volavano in cielo o di navi che audaci solcavano i mari.
“Signore posso appoggiarmi al suo bastone?”
Era stato il suo desiderio avverato quel bambino, che mentre tornava dal giardino alla sua abitazione, gli si era avvicinato, e con la curiosità dentro gli occhi e la voglia di un nuovo da provare, gli aveva sussurrato quelle parole e con tenerezza, sulla sua mano che teneva il bastone, dolcemente si era appoggiato a farsi, lui giovane , trascinare.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web

lunedì 17 febbraio 2020

BEATO ANGELICO - DEPOSIZIONE DI CRISTO

Nel giorno in cui viene festeggiato (18 Febbraio) voglio esporre una delle sue tante , e forse più famosa opera pittorica, “Deposizione di Cristo” proprio di Guido di Pietro, divenuto Fra Giovanni da Fiesole e meglio conosciuto come Beato Angelico.
La tavola è una pittura a tempera, la cui rappresentazione è suddivisa in tre parti; la centro risalta la figura del Cristo sceso dalla Croce da tre uomini sulle scale e da altri due in terra che lo sorreggono, alla sinistra un gruppo di pie donne affrante, in atteggiamento di conforto alla Madonna, seduta al centro di loro, a destra sette uomini in diverse tipologie di abbigliamento ( a identificare la provenienza straniera) e altri due con i costumi contemporanei.
Nello sfondo un grande paesaggio, presumibilmente toscano, e la raffigurazione edificale di Gerusalemme.
La tavola fu commissionata intorno al 1420 dalla famiglia Strozzi, (al tempo la più ricca famiglia di Firenze che era riuscita a fra fuggire pure Cosimo de Medici, che comunque si riscatterà eliminandoli completamente) a Lorenzo Monaco (maestro del Beato Angelico) che iniziò a dipingerla nei contorni con le raffigurazioni della Resurrezione di Cristo al centro e di altri vari Santi alle parti, tra cui Sant'Onofrio in onore proprio del capostipite degli Strozzi, appunto Nofri, diminutivo di Onofrio. La tavola (pala) era pensata per risiedere appunto nella cappella sepolcrale del Nofri, sopra uno dei due altari presenti, nella Chiesa di Santa Trinità, dove nel secondo altare già era presente la meravigliosa opera di Gentile da Fabriano, “L'adorazione dei Magi” (ora agli Uffizi), ma la morte del pittore interruppe i lavori per vari anni, quando Palla Strozzi, l'erede del Nofri, chiamò a terminarla proprio il già noto Frate Angelico. Questi accetta di terminarla ma invece di rappresentare come consuetudine la Madonna e il bambino, decise di realizzare una scena unica con la Deposizione di Cristo, cosa alquanto particolare e assolutamente nuova nel suo genere in quel periodo.
Nel gruppo degli uomini a sinistra, sopra citati, il primo dei sette, con in una mano due chiodi della Croce e nell'altra la corona di spine, pare venga attribuita la figura del committente, ovvero il Palla, mentre il giovane inginocchiato vestito di rosso, è identificato come il figlio del Palla, Lorenzo.
Attualmente la magistrale opera è visibile al Museo Nazionale di San Marco, insieme ai magnifici affreschi che riempiono l'intero complesso monacale di cui l'Angelico era stato commissionato di dipingerli da Cosimo de Medici, titolare del convento fatto erigere appositamente, da Michelozzo, e nel quale lo stesso Medici aveva una sua preposta cella.
Se comunque non si avesse la fortuna di poter vedere dal vivo tale opera, già nell'immagine fotografata si risente di quella dolcezza, di quella gentilezza e di quell'amore che il Maestro, non solo trasportava in ogni cosa che faceva, ma anche nel suo stesso ascetico vivere.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Beato Angelico - Deposizione di Cristo

18 FEBBRAIO - BEATO FRA GIOVANNI DA FIESOLE (BEATO ANGELICO)

Guido di Pietro, ovvero Fra Giovanni da Fiesole, detto Beato Angelico, nacque in un piccolo pese del Mugello (Fi), Vicchio, alla fine del 1300. Intorno al 1400 prese i voti entrando a far parte dei Domenicani osservanti, in cui si seguiva la ferrea regola di San Domenico , dedita alla povertà e all'ascetismo.
Già esercitava funzione di pittore e riceveva commissioni da vari monasteri e pure da alcuni privati, ma appena divenuto frate, lui non voleva niente a fronte dei suoi lavori e faceva che i pagamenti fossero versati al convento per il sostentamento di tutti.
Intorno la metà del '400 alcuni frati di San Domenico di Fiesole furono trasferiti a San Giorgio alla Costa in Firenze per poi prendere dimora alla sede finale nel centro della città, a San Marco, che Michelozzo, su ordine di Cosimo de Medici, edificò un nuovo convento, ma in questo spostamento Fra Giovanni non volle esserne partecipe e rimase a Fiesole.
Non era ancora finito il convento, che lo stesso Cosimo de Medici, su consiglio del Michelozzo stesso, commissionò al Beato Angelico gli affreschi che avrebbero dovuto essere fatti in tutte le celle dei frati e nel refettorio, per cui il Frate si trovò costretto a doversi spostare definitivamente per l'esiguo lavoro da fare.
Giovanni da Fiesole fu beatificato da Giovanni Paolo Secondo nel 1982 proclamandolo patrono degli artisti, ma il termine di Beato gli era già stato attribuito quando ancora era in vita, per la sua semplicità, devozione, carità e amore, che riuscì, con la stessa naturalezza, ad imprimere nella pittura, e fu soprannominato “Angelico” perchè lui era definito l'umile testimone di chi vive in Dio , tale da esprimerlo sia sul volto, che in tutto quello che faceva, con una serenità tale che nulla e nessuno poteva turbare.
I suoi “ragazzi” che gli davano mano come garzoni o semplici suoi allievi, spesso si trovavano a discutere tra loro domandandosi come fosse possibile, che Fra Giovanni, potesse dipingere su una passerella sospesa tra le alte impalcature, per ore e ore, senza muoversi e senza stancarsi, senza sentire rumori a disturbarlo quasi fosse sordo, e vi lavorava con tale tranquillità e leggerezza come se fosse sospeso sulle nuvole a dipingere il cielo.
Lo stesso Papa Eugenio IV, quando intorno al 1445, lo chiamò a Roma , dove poi per il successore Papa Niccolò IV affrescò la cappella Nicolina, ebbe a meravigliarsi della sua semplicità e del suo amore mistico, tale da asserirgli: “ Voi avete la profondità di un mistico e la semplicità di un bambino”.
Fra Angelico gli rispose: “ Il Signore ha voluto che io, pur conoscendo il male, scorgessi sotto tutto ciò che è cattivo ( e che fa tanto rumore). Il bene, che pur silenzioso, è sempre presente” e aggiunse “ Santità, gli uomini si lamentano spesso che il mondo è cattivo, ma se ognuno di essi si proponesse di fare il bene, invece di inveire che questi non c'è, il mondo farebbe presto a cambiare!”.
A Roma, Fra Giovanni, morì il 18 febbraio del 1455 nel convento di Santa Maria sopra Minerva dove sono custodite le sue spoglie.
Roberto Busembai (errebi)
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sabato 15 febbraio 2020

L'ISOLA DI MONTECRISTO E SAN MAMILIANO

Montecristo è uno dei più belli e naturali gioielli dell'arcipelago Toscano, un'isola inabitata e di una meravigliosa selvaggia bellezza, cui vive una preziosa colonia di capre selvatiche e una innumerevole particolarità faunistiche e della flora. L'isola è riconosciuta Riserva Naturale Integrale e Riserva Naturale Biogenetica ed è presidiata dal Raggruppamento Carabinieri Biodiversità.
Non si può raggiungere singolarmente, previo una regolare e ostica autorizzazione, spesso si può approfittare di escursioni pilotate e gestite dall'Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano che fanno visitare l'isola in percorsi ben delineati e accompagnati da guide dello stesso Ente e anche da carabinieri della Biodiversità. I percorsi sono di carattere trekking e esigono un appropriato abbigliamento sia per la sicurezza della persona e sia per il rispetto del luogo.


Nel V secolo il vescovo di Palermo, San Mamiliano, fu reso prigioniero insieme ad altri quattro suoi compagni, da temibile barbaro Genserico, capo dei Vandali, che era sceso nel sud dell'Italia dopo aver ben saccheggiato Roma nel 455. I cinque furono fatti salire su un vascello con l'intento di deportarli in Africa, ma le costanti e accalorate suppliche e preghiere dei malcapitati riuscirono ad ottenere una piccola imbarcazione con cui fuggire. Il loro intento era quello di arrivare in Sardegna ma le popolazioni del luogo non li vollero assolutamente e così fu anche a Piombino e all'Elba finchè di disgraziati giunsero in una piccola e deserta isola, sempre del favoloso arcipelago toscano, l'isola di Nontegiove, battezzata poi dal santo in Montecristo.

Ma la tranquillità del luogo era soltanto apparente, perchè ivi vi abitava un enorme e terribile drago alato, che uccideva e infestava qualsiasi cosa o animale trovasse, ma San Mamiliano ebbe la forza e il coraggio propri dei benedetti, e affrontò la belva uccidendolo, bruciandolo e gettando le sue resta nel mare. Si narra che nel preciso luogo dove fu abbattuto sia sorta una polla di fresca acqua, che ancora esiste ed è in prossimità della Grotta dove il Santo con i suoi confratelli solevano vivere e pregare, e tutt'oggi è visitabile.
Alla morte del Santo, come lui aveva predetto, si notò alzarsi dalla vetta del monte fino all'azzurro e limpido cielo, una splendente nuvoletta bianca che gli abitanti della vicina isola del Giglio, essendone a conoscenza del motivo e essendo anche i primi che la notarono, si affrettarono a sbarcare nell'isola di Montecristo per prendere le spoglie del Santo e portarle con devozione nella loro isola. Anche dall'Elba partirono delle imbarcazioni con il solito intento ma una tremenda burrasca impedì loro di proseguire, mentre le imbarcazioni dei gigliesi navigavano in un mare assolutamente tranquillo.
Nel susseguirsi dei secoli, queste spoglie furono portate a Gaeta, per far si che i pirati che infestavano la piccola isola le profanassero, poi un sacerdote fiorentino le caricò su una barca per portarle a Firenze, ma risalendo l'Arno, in prossimità di Pisa e precisamente davanti alla chiesa di San Matteo, la barca si arenò improvvisamente e non ci fu più maniera per poterla fare andare avanti. I resti del Santo dovevano essere lasciati in quella dimora.
Al Giglio comunque rimasero alcune ossa ed ancora il santo viene festeggiato e venerato.
Ma ritornando all'isola di Montecristo non possiamo non nominare il Monastero che dopo vari anni dalla morte del Santo, fu eretto dai Benedettini e poi passato ai Camaldolesi, ma nel '500 gli ultimi frati rimasti furono tutti fatti prigionieri dalla flotta del saraceno Dragut e da allora il monastero andò nettamente in rovina, ma si lasciò dietro un mistero, perchè si è sempre pensato che in esso vi fosse un tesoro nascosto, il quale è stato da tanti ricercato, instigati anche da una diceria che asseriva che un gruppo di corsi avesse trovato un libro in cui pareva indicare un enorme tesoro proprio sotto l'altare, ma del tesoro non se ne trovò mai traccia.


L'unico che lo ha davvero trovato, è il conte Emond Dantes nel fantastico romanzo di Dumas, il conte di Montecristo.
Ancora una piccola nota, si narra che la grande scrittrice Agatha Christie, in un primo momento fosse portata a voler ambientare il suo famoso giallo “Dieci piccoli indiani” proprio a Montecristo ma poi scelse una più anonima isola britannica.

Roberto Busembai (errebi)
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giovedì 13 febbraio 2020

E'..(ERA) CARNEVALE....ANCHE A LUCCA

E siamo nel pieno del mese di Carnevale, e non c'è città, paese, addirittura borgo che non festeggia e balla e ride in questi giorni, ognuno con le sue tradizioni, ognuno con le sue maschere a colori, con feste, balli e pure succose cibarie da far leccare i baffi, dolci e pure salati, leccornie per bambini ma pure e tante per gli adulti, anche se ormai è quasi tutto omologato, da ogni parte e luogo il carnevale si assomiglia. In toscana c'è ancora il detto che “L'epifania tutte le feste le porta via” ma c'è pure la risposta “ ma il matto del Carnevale tutte le feste le fa ritornare” e una volta, al tempo dei nostri nonni e bisnonni, e ancora molto prima, il Carnevale era inteso davvero come periodo di svago e di rilassamento, dove persino da ogni piccolo borgo, si aveva l'inventiva di un qualche cosa di diverso, bastava che facesse divertire e ridere senza pensare. Sorgevano allora alberi della cuccagna, feste in piazza, pentolacce, rappresentazioni teatrali, insomma un po come i Saturnalia degli antichi romani, (quelli si celebravano a dicembre quando tutto era concesso e quando l'ordine sociale veniva sovvertito, tanto che i padroni servivano gli schiavi). E allora potremmo nominarne tanti, fra quelli che la memoria mi sovviene, intorno alla provincia di Lucca, ad esempio a Valdottavo si gareggiava con la corsa “dei micci” che erano montati a pelo, ovvero senza sella, oppure a Borgo a Mozzano dove era assolutamente proibito lavorare nei giorni del Carnevale e chi aveva la sfrontatezza di trasgredire a tale ordine comunale, veniva pubblicamente processato in piazza con la relativa condanna di pagare bere a tutti quanti. A Lucca c'era il divertimento di tirare le “beute” ovvero delle uova bevute e poi riempite con liquidi maleodoranti, ( penso sappiate, e chi non ne fosse a conoscenza lo spiego, come si bevevano le uova “una volta”....specialmente per coloro che abitavano in campagna era consuetudine la mattina alzarsi e andare nel pollaio, che immancabilmente era presente in ogni “corte”, prendere il primo uovo fresco e con un chiodo o un ferro o che altro fare un foro nel guscio, prima da una parte, poi tenendo l'uovo tra le mani ma con un dito a otturare il foro fatto, se ne praticava un'altro all'opposta parte e si avvicinava così alla bocca e si aspirava mentre si toglieva il dito che faceva da otturazione....l'effetto era che tutto il contenuto veniva letteralmente aspirato in bocca e digerito) il guscio così riempito serviva per tirarlo addosso a coloro che magari avevi un poco di astio, oppure per ischerzo a qualche amico, insomma ogni persona era un buon e divertente bersaglio, ma spesso questi scherzi non venivano accettati dai malcapitati che si prendevano le “beute”e si finiva a cazzottate......poi la cosa comunque finiva all'osteria tra le risate. Ma anche la cucina aveva le sue tradizioni non indifferenti, di solito in questo periodo si usava insaccare il maiale, a chi aveva la fortuna di possederne e allevarne uno, e fare una grandissima scorpacciata di queste carni in riparo alla vicina Quaresima, che una volta imponeva tassativamente il digiuno dalle carni, poi i famosi cenci e le frittelle ma a Lucca si faceva, e anzi ancora si fanno come tradizione i “tordelli”, quella gustosa pasta fresca ripiena che veniva tagliata e formata con il bicchiere e per gli amanti e i golosi rimando alla dettagliata ricetta sulla mia pagina FB di Nonna Lina vi consiglia.


E per finire non posso non nominare “ciccia e ossi” , che ancora oggi in Lucchesia si usa come termine se si vuol indicare una persona povera e malnutrita....”'n non vedi è tutto ciccia e ossi!”.
La tradizione ha origine molto lontane, direi quasi medievali, e si svolgeva proprio nel cuore della città di Lucca, la cosiddetta Lucca "drento", tra le mura che la circondano. La mattina del Giovedì Grasso, i molti poveri che allora esistevano e lo erano per davvero, bambini, donne, vecchi, uomini e anche persone portatori di qualche handicap, con indosso i più svariati e particolari indumenti, con calzoni sdruciti o rigirati, tinteggiati nel volto con i più svariati colori e chi addirittura si faceva i baffi nelle più particolari forme, sfilavano così conciati, per le strade della città e bussavano ad ogni porta, ad ogni uscio, e a ogni negozio, soprattutto a quelli che vendevano cibo, e muti, senza dire niente aspettavano che qualcuno gli desse loro qualche cosa, un avanzo, dei tozzi di pane, oppure anche dei cenci, insomma tutto era bono e veniva raccolto nei grandi sacchi di juta che si portavano appresso, tutto era bono per trascorrere anche loro il Carnevale mangiando e assaporando quei cibi che invece i ricchi abbondavano in questa festa.
E così il Carnevale è davvero la festa di tutti e per tutti, poveri e ricchi, giovani e vecchi, grandi e piccini.
Roberto Busembai (errebi)
Immagini: ERREBI

mercoledì 12 febbraio 2020

AUTORI VARI - STORIE DI LIBRI

Eppure si parla di libri, come se fossero un'entità e una materia vivente che possiede cuore e anima, eppure sono soltanto un ammasso di carta, talvolta anche preziosa, dove sono impresse parole che celano spesso misteri e sogni, speranze e avventure, eppure si parla di libri e per essi o da essi si può anche voler morire, combattere, amare, lottare. Per un libro si può arrivare ad uccidere, oppure un libro potrebbe anche essere malefico e chi viene a conoscenza del suo sapere, morire, potremmo trovarci tra le mani un preziosissimo libro miniato, una perla dei tempi, comunque sia un libro reca sempre e immancabilmente piacere.
In questa raccolta “STORIE DI LIBRI” a cura di Giovanni Casalegno, il soggetto principale è proprio lui, il libro, e qui viene a trovarsi, come un provetto attore, a interpretare i più svariati personaggi per un insieme di avventure, storie, gialli, commedie e altro, una raccolta di racconti basati sul libro in se, scritti dai più famosi scrittori di tutti i tempi, da Chesterton a Pirandello, da Flaubert a d'Annunzio e tanti altri. E' un libro nel libro, si spazia dal sentimentale al drammatico, dall'immaginario allo storico, dalla fantascienza al genere giallo, e si può leggere anche quando magari abbiamo poco tempo, quando un racconto è lungo giusto quel momento e vi garantisco, che qualsiasi racconto voi leggiate, vi sembrerà lunghissimo per la capacità e l'intensità di quello che andate leggendo.
Ah dimenticavo, leggeteli quando vi pare questi racconti, anche a distanza di tempo, quando ve ne viene la voglia, ma leggeteli tutti, perchè meritano ognuno di essere conosciuti.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: copertina del libro

lunedì 10 febbraio 2020

10 FEBBRAIO - SAN JOSE' SANCHEZ ( JOSELITO)

Nel Messico degli anni venti - trenta ad un professante e credente cattolico cristiano erano garantiti l'oltraggio, la sevizie e tortura e infine l'uccisione o per impiccagione o per fucilazione.Gli ordini religiosi erano assolutamente vietati, la Chiesa era privata dei diritti di proprietà e ai sacerdoti erano private le libertà civili come il diritto di voto e il diritto di una giuria in un qualsiasi processo, e se incontrati con gli abiti talari era garantita l'impiccagione.
Il giovanissimo José Sanchez (Joselito) del Rio nacque a Sahuayo nel marzo del 1913 nella regione di Michoacan e già da piccolo era portato verso la fede, al punto che voleva seguire i suoi fratelli maggiori che erano già facenti parte dei Cristeros. La madre insistente e premurosa, se non addirittura impaurita, si raccomandava obiettando con la scusa che era troppo giovane, ma José gli rispondeva: “ Ti prego mamma, non farmi perdere l'opportunità di arrivare in Paradiso velocemente e presto”.
Il 5 febbraio del 1928 il ragazzo fu catturato durante una sommossa tra cristiani cattolici e soldati dello stato, e imprigionato nella sagrestia della chiesa, in più per terrorizzarlo e perchè si rimettesse al loro dovere, gli imposero di assistere all'impiccagione di uno dei tanti Cristeros che avevano catturato, ma José diversamente incoraggiò l'uomo che doveva subire il supplizio dicendogli:
“ Sarai in Paradiso prima di me. Dì a Cristo Re che presto sarò anche io con Lui e che mi prepari un posto”.


Attese il suo turno con la preghiera e la pura devozione, scrisse una lettera accorata alla madre dicendole che era rassegnato alla volontà di Dio, il padre cercò pure di riscattarlo ma non fu in grado di poter raggiungere l'esosa cifra monetaria richiesta.
Il 10 febbraio fu brutalmente torturato e gli fu strappata la pelle sotto la pianta dei piedi, poi gli fu imposto di camminare sul sale, lungo un percorso che attraversava tutta la città fino al cimitero, spesso incitandolo a rinunciare a Cristo e a gridare Morte al Cristo Re, ma il ragazzo nonostante esprimesse il forte e acuto dolore , rispondeva a loro gridando: “ Lunga vita a Cristo Re”.
Arrivati al cimitero gli fu rivolta la stessa domanda, ma la risposta fu la stessa di sempre e a quel punto gli spararono addosso.


Nel giugno del 2004 per volontà di Giovanni Paolo II fu dichiarato venerato e poi successivamente beatificato da Papa Benedetto XVI nel 20 novembre 2005. Papa Francesco ha approvato un miracolo a lui attribuito e il 16 ottobre del 2016 è stato proclamato santo.

Roberto Busembai (errebi)
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domenica 9 febbraio 2020

LA VITA E' IGNORANTE

"Se l'uomo avesse davvero quel cervello che dice di possedere,
mentre lo dice, dovrebbe allora già riflettere e non solo pensare
di averlo" (errebi)



Certo che la vita è proprio ignorante! E non voglio travisare il concetto e la parola “ignorante” qui è posta nel senso che la identifica proprio come non conoscente, non sapiente, di natura selvaggia e ignara di quello che le accade, la vita è ignorante nel solo essere tale. Altrimenti non si spiega questo immenso bisogno di fare del male, non si spiega questa forza imponente nel criticare ogni cosa che viene detta e fatta, non si spiega quella caccia alla supremazia anche solo per la conquista di un posto sul treno o in coda in ufficio, e queste sono le piccole cose, figuriamoci quelle più importanti. Certo che la vita ci pone quelle tante e immense prove che già di per se sono eccessive, come se la natura stessa non facesse la sua buona parte, e allora ecco che nascono malattie, virus e accadimenti, disastri naturali, allagamenti, terremoti e quante ancora lo scorrere del mondo naturale ci pone davanti, e ribadisco, la vita è ignorante perchè non si rende nemmeno conto di quanto sacrificio deve sopportare ogni cosa che in essa davvero vive e di essa si sostiene.
Siamo oggetti usati da un destino fatale che non ha ordine o principio e fine, è un destino che cieco cammina inevitabilmente su ogni cosa, animale e persona, e non lascia una via di fuga o di scelta, siamo fili tirati sopra un precipizio di cose, siamo soltanto un baratro immenso che non conosce la sua profondità che talvolta può essere quasi infinita altre solo pochi metri, e in questo rincorrersi tra un arrivo e una partenza, navighiamo in una zattera immensa in balia di un'onda che la possa trasportare oppure sommergere per non più risollevare. Naufraghi dentro, in un mare di vuoto esistenziale, ci siamo persi nel niente e non riusciamo più a trovarci come se avessimo nebbie profonde e compatte a separarci per sempre. Certo che la vita è ignorante e noi l'abbiamo ancor più lasciata nel suo non sapere, l'abbiamo ricoperta del peggio che si poteva fare, e con la peggiore e non comprensibile, criticabile, stupida ignoranza maggiore l'abbiamo sommersa.
Voglio essere fiducioso, almeno speranzoso, c'è sempre una luce dopo una galleria, esiste sempre il buono dove c'è un cattivo, il bianco che sovrasta il nero, difficile è potere intravedere quella luce lontanissima che pare una minuscola e tenue stella in un firmamento perso e nero dalla nuvole grigie e dense, difficile poi è riscoprire il buono, quello sincero, quello fedele e vero, e non mascherato come spesso accade e come spesso si propone ed è il più acclamato, come difficile è capire il bianco, non tanto come colore, ma come calore e sapore innocente, pulito, lindo, immenso e gratificante, la vita è ignorante perchè offre spesso più il nero dentro il cuore, quasi che volesse, riprendersi troppo spesso quello che ci ha dato. E allora uomo che ti trovi con una intelligenza, almeno così ci hanno detto e ci è parso di avere, allora uomo usala per quello che la dovresti davvero usare e frega questa vita e trasformala sapiente, curala, controllala e falla camminare verso quella luce da poterla ingrandire, verso una bontà che non costa niente e arricchisce il cuore, verso quel colore bianco che tanto si addice all'amore.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Kunie Sugiura - Cut Flower Tendrils A

venerdì 7 febbraio 2020

UN DENTE CAVATO CON L'INCUDINE

Quando mi trovo a certi mercatini d'antiquariato, la mia maggiore ricerca è basata sui libri, ma non tanto per cercare quel qualcosa di prezioso e antiquato, ma per ritrovare edizioni ormai perse, magari anche datate, che hanno comunque un valore letterario non indifferente. Si trovano vecchie antologie dove vengono magari citati poeti e scrittori che sopraffatti dai "soliti grandi" sono dimenticati e persi, si trovano raccolte di fiabe e/o racconti che escono dalle solite conosciute e alcune oserei dire usurate novelle, e proprio ultimamente ho trovato un "novelliere", una raccolta di novelle di un libro datato del 1935 ....Novelle di illustri e tanto di meno conosciuti novellieri e scrittori dei passati secoli.
Oggi vi voglio riportare questa, da me riveduta per una più facile lettura e comprensione, di GIOVANNI SAGREDO, un ambasciatore italiano del seicento, patrizio veneto e fratello del doge Niccolò, che scrisse l'ARCADIA IN BRENTA, una trovata che ripete il solito motivo del Decameron, dove qui egli immagina tre gentiluomini e tre gentildonne di carattere solare e dotati di un buon spirito, che si ritirano in campagna sulle rive del Brenta e trascorrono otto giorni in piacevoli conversazioni.
L'Arcadia contiene circa quarantacinque novelle miste a motti arguti e facezie e da quest'ultime ho tratto questa divertente lettura.
UN DENTE CAVATO CON L'INCUDINE
Due ciarlatani ovvero due cavatori di denti che decantavano in modi e maniere quasi miracolose e geniali il loro ardire e fare, si erano per caso incontrati in una delle tante piazze che bazzicavano e si trovarono a prendersi in questione.
Uno diceva baldanzoso e alquanto fiero e pavoneggiandosi pure:
“ Io cavo i denti col manico di un pugnale”
L'altro, non meno borioso, controbatteva deciso:
“ Io, io so fare di meglio, li cavo con la pistola.”
Allora il primo non potendone più di questa sfrontataggine, anche per non perdere fiducia sulla piazza, ne uscì con una davvero geniale:
“ Io li cavo con una grossa incudine, di quelle belle grandi e pesanti su cui si battono le àncore delle navi che hanno ferri così smisurati, che nemmeno la punta potrebbe entrare nella bocca.”
L'altro quasi non si sbellica dalle risa e cercando di trattenersi rispose:
“ Questa è proprio una grande baggianata, è davvero uno sproposito!”
“ E allora” rispose immediato il primo “ scommettiamo? Io ci gioco dieci scudi”
“ Ben volentieri anche io ve li deposito” rispose l'altro già sicuro e certo di portarsi in tasca la vittoria “ e sono sicuro che non riuscirai a cavarmi nessun dente, neppure questo (e indicò un dente che già vacillava), che a mal pena si potrebbe togliere con due dita”
Fu così che a scommessa pattuita i due si trasferirono a “Castello” ( riporto la denominazione del luogo come è nell'originale, ma è una località indeterminata e non riscontrabile) dove vi erano una quantità di fucine e dove si potevano trovare incudini talmente pesanti e grandi, perchè in queste si battono le più grandi àncore del Paese.
Il primo, quello che dette inizio alla scommessa, fece accomodare su una sedia il compare, gli legò le mani di dietro, poi prese una corda di un liuto e la rigirò intorno al dente del rivale, legò quindi l'altro capo ad una enorme incudine. Poi visto un grosso maglio, un martello di ferro, lo prese, lo alzò con tutte e due le mani e prendendo la mira sulla testa del paziente, urlò:
“ Cane traditore piuttosto ti accoppo che farmi rubare dieci scudi!”
L'altro spaventato e terrorizzato, vedendosi minacciato sulla testa, diede un grande scossone tirandosi da una parte per scansare il colpo, al punto tale che …...il dente rimase attaccato all'incudine!
Lo scommettitore col mezzo dell'ingegno e dell'intelligenza si guadagnò i dieci scudi.
Liberamente tratto da L'Arcadia di Giovanni Sagredo.
Roberto Busembai (errebi)
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lunedì 3 febbraio 2020

VAL DI LIMA (PT) - IL PONTE SOSPESO


Eravamo ai primordi degli anni '20 e un nobile piacentino, Vincenzo Duglas Scotti, conte di San Giorgio della Scala, direttore del laminatoio di Mammiano Basso, per far si che i suoi operai raggiungessero il posto di lavoro senza tante traversie, fatiche immani e chilometri a piedi, venne l'idea di costruire un ponte.
Siamo nelle montagne pistoiesi, sulla strada che porta alla più famosa dimora dell'Abetone, e nel costeggiare un portentoso affluente del fiume Serchio, la Lima, si può provare l'ebrezza di attraversare un ponte sospeso sul torrente all'altezza nel vuoto di ben 36metri, per una lunghezza di circa 227 metri, un ponte realizzato con grossi cavi metallici, che congiunge le due alte sponde, una che si trova nella frazione di Popiglio e l'altra appunto a Mammiano Basso dove era il suddetto laminatoio. 

E' un attraversamento da perdifiato, specie se non si è soli, perchè il movimento di altre persone fa ben oscillare il ponte, ormai divenuto un'attrazione turistica al punto che ultimamente, oltre ad essere ben monitorato e controllato, è stato illuminato, ma fu davvero propizio per i poveri operai che ogni mattina si dovevano fare, alla meglio, ben 6 Km a piedi per raggiungere la fabbrica oppure, alla peggio, (sempre che il torrente non fosse in piena) scendere dal poggio di Popiglio, arrivare al torrente, cercare di attraversarlo con tavoloni appoggiati ai sassi e poi risalire sul poggio di Mammiano per poi ridiscendere al Mammiano Basso.


Roberto Busembai (errebi)
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ANDREA DEL SARTO - MADONNA DELLE ARPIE

Non c'è descrizione migliore del Vasari per entrare nell'animo e nello spirito di un grande Maestro, Andrea del Sarto, prima di commentare una delle sue più importanti opere pittoriche.
“........che se fusse stato Andrea d'animo alquanto più fiero ed ardito, siccome era d'ingegno e giudizio profondissimo in questa arte, sarebbe stato, senza dubitazione alcuna, senza pari.........le sue figure, sebbene semplici e pure, bene intese, sono senza errori e in tutti i conti di somma perfezione.”
E pensare che il Vasari stesso fu suo allievo come tanti altri grandissimi, come Pontormo e Rosso Fiorentino non ebbe mai l'ardore “eccentrico” dei suoi studenti, ma ha saputo rimanere nel repertorio tradizionale con garbato e gentile modo, donando “fiato” alle figure e iniziando una variazione cromatica sviluppata poi dai “moderni”.
L'opera in oggetto, La Madonna delle Arpie, fu commissionata al Maestro nel 1515, dalle monache di San Francesco de' Macci a Firenze, per alloggiare appunto una pala nella loro chiesa.
E' un'opera che ha racchiuso un mistero, che ancora, nonostante gli ultimi studi dei critici d'arte abbiano trovato una “vaga” ma ponderata risposta, lascia incertezze.
La Madonna, il cui volto si presume sicuramente sia della moglie Lucrezia, è avvolta in abiti colorati con in braccio il Bambino, ed è posta su una base marmorea, come ad atteggiarsi a una statua. A fianco, ad ambedue le parti ma in basso, i due santi Francesco e Giovanni, sotto di lei, oltre il piedistallo di cui parleremo, ci sono due piccoli putti.
In principio al posto di san Francesco, v'era dipinto un San Bonaventura come richiesto dalle monache committenti, ma pare, su suggerimento di un influente del convento, fu sostituito e anche gli angeli che vi apparivano furono sostituiti dai putti.
La controversia e il mistero a cui adducevo prima, sta nelle figure “demoniache” insite agli angoli della base “marmorea”, figure dette appunto arpie, figure che hanno sempre sollevato stupore e inquietudine, e hanno sempre ardito a risposte del perchè queste strane e antropomorfe figure fossero rappresentate.
Un'ultima risposta, data da studi approfonditi, è stata data da uno studioso, Natali, in quanto riconosce in questi esseri per lo più alati, delle semplici “cavallette” o “locuste” attribuendole così a un passo dell'Apocalisse di Giovanni secondo cui le locuste con facce da “uomini” verranno per torturare gli uomini. Ecco la risposta anche della figura del Santo Giovanni che con un libro aperto in mano, cui si presuppone sia appunto l'Apocalisse, indica un qualcosa e appunto il passo di cui sopra descritto. La stessa figura poi cambiata, del Santo Francesco rientrerebbe in questa lettura dell'opera, in quanto raffiguri emblematicamente tutti coloro che rimarranno indenni dal Giudizio Universale, da quella “morte secunda” come lui denominò nel Cantico delle Creature.
Nel 1703 Ferdinando de' Medici, attratto e quasi innamorato di questa pala, con la promessa di un rifacimento totale della chiesa del monastero, si fece donare la pala che trasferì a Palazzo Pitti per poi in seguito, e tutt'ora è presente, entrare negli Uffizi.
Ma lasciamoci assorbire dall'incanto stesso dell'opera, dalla plasticità dei movimenti e dalla cromica dei colori che saranno poi le caratteristiche “migliori” del già nominato Pontormo e Rosso Fiorentino, che nonostante la loro innovativa e audace maniera di esposizione, saranno sempre riconoscibili come suoi allievi.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Andrea del Sarto - Madonna delle Arpie