L'opera di oggi è una delle più importanti di una delle poche e famose pittrici donne, ovvero “Giuditta che decapita Oloferne” di Artemisia Gentileschi.
Per poter comprendere a fondo questa opera di una così forte violenza e timbro pittorico, bisogna risalire alla prima parte della vita della pittrice.
Artemisia Gentileschi, figlia del già noto pittore romano Orazio, all'età di diciotto anni subì violenza carnale da parte del socio del padre, il pittore livornese Agostino Tassi, che avendo instaurato una relazione con la giovane pittrice gli aveva anche promesso di sposarla, quando invece sarebbe stato impossibile in quanto lui già sposo in Toscana.
L'oltraggio, al tempo sarebbe passato quasi inosservato per la poca considerazione che le donne potevano avere, ma il padre Orazio riuscì con tutto il suo intento a portare a processo il Tassi e pure a farlo condannare all'esilio. L'onore della figlia era rimarginato e anzi durante il periodo del processo si dette pure da fare a far maritare Artemisia con uno dei testimoni, Pierantonio Stiattesi.
Le nozze furono celebrate in tutta fretta a Roma ma Artemisia chiese al padre di allontanarsi dalla città e questi inviò allora lettera di raccomandazione alla granduchessa di Toscana, dichiarandosi suddito e innalzando le grandi doti pittoriche della figlia.
Artemisia e consorte si trasferirono allora nel granducato Toscano sotto la guida di Cosimo II di Firenze.
Ed è proprio a Firenze che Artemisia mette in atto questa meravigliosa opera, in cui rappresenta tutta la sua voglia di vendetta e rabbia per la violenza subita e lo fa usando un passo dell'antico Testamento.
Il popolo ebraico,assediato dall'assiro Oloferne, era prossimo alla capitolazione a meno che non si fosse verificato un miracolo, fu così che una giovane vedova ebrea, Giuditta, si offerse per avvicinarsi nel campo del nemico. Con lei andò la fedele serva, mentre Giuditta si spogliò delle sue comuni vesti e si trasformò in una ricca donna, dalle vesti e dai gioielli appariscenti, e così addobbata si presentò davanti al generale ammaliandolo con l'intento di svelargli il punto debole degli ebrei. Oloferne fu incantato da quella bellissima presenza e in suo onore volle indire un banchetto, poi una volta satollo e ebbro di vino si coricò nella sua tenda con la bellissima Giuditta, ma appena questi si addormentò profondamente la donna lo decapitò con tutta la sua forza.
Artemisia in questa opera ha aggiunto la figura della serva che aiuta Giuditta, per dare più risalto e forza alla figura femminile che si riscatta sull'uomo violentatore, nel testo dell'antico testamento, Abra, la serva è fuori che aspetta con un bianco telo, che la padrona porti la testa del generale.
Infatti questa sarebbe stata la tradizione iconografica di questo fatto, ma Artemisia invece vuole rappresentare proprio il momento cruciale, dare forte risalto a quanta forza può scatenarsi da una donna se oltraggiata, Giuditta in un eccentrico costume giallo e con un fastoso bracciale d'oro non è altro che Artemisia, in quel poderoso gesto, in quello scaturirsi della grande forza fisica e della tenacia nel raggiungere l'obiettivo, c'è tutta la sua rabbia e riscatto insieme.
In una stanza buia, Oloferne è riverso sopra un letto sfatto, su di lui si scatenano due donne, Abra, la serva, con tutta la sua forza tiene fermo il corpo mentre Giuditta con fermezza e forte decisione recide con una scimitarra il capo del generale, Oloferne esala l'ultimo respiro. L'opera è firmata: EGO ARTEMITIA LOMI FEC.
E' stata una grande maestra della pittura del periodo, una delle più grandi da annoverare tra i grandi nomi “maschili” e fu l'unica donna che ebbe l'onore di poter essere ammessa all'Accademia del Disegno. Le sue opere sono tutte legate alla condizione femminile, come la casta Susanna che non cede ai vecchioni, o il suicidio di Lucrezia o di Cleopatra e altre.
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Artemisia Gentileschi – Giuditta che decapita Oloferne
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