Non si può non pensare di tornare al classico, quando si parla di favole, perchè è dal classico che se ne maturano poi tutte le altre, revisionate e tradotte, riesumate e scoperte, rielaborate e narrate, ebbene in questo fare allora non si può che non pensare a colui che delle favole ne fece un “mito” di lavoro e di astuto delicato e sofferto lavoro, Jean de la Fontaine.
Rielaborò e rintracciò le antiche narrazioni di Esopo e ne trasse una sua particolare e incisiva narrazione, dovutamente tutta in versi e con monito (morale) ben distinguibile dedicato all'uomo e al suo vissuto.
L'inizio de “Les Fables” è una dedica al Delfino di Francia della quale io vi riporto una piccola parte perchè si comprenda che non è riferito soltanto al Sovrano ma ad ogni uomo vivente:
“ Canto gli Eroi progenie alma d'Esopo
di cui l'istoria, anco se falsa, in fondo
di verità nasconde alti concetti.
Tutto parla nel mio novo poema,
il can, la volpe e fin parlano i pesci;
ma ciò che l'uno all'altro gli animali
dicon fra lor, di te, lettor, si dice.........”
GLI ANIMALI MALATI DI PESTE
Pare che il Cielo, per castigare le malefatte della terra, un giorno inventò un male, terribile e fatale, da mettere tanta paura e che tanti morti recò a riempire i cimiteri, praticamente la Peste che tutti gli animali morivano a cento e cento senza far distinzione di razza o di colore.
Nessuno ormai aveva voglia e volontà di vivere in queste condizioni, tanto che ogni cibo da catturare tanto faceva fastidio e rimaneva in gola da non digerire, e con il fuggire di ogni uccello o libero animale fuggiva anche l'amore e pure il diletto di esso e di continuare.
Fu il Leone allora che tenne consiglio e radunò tutti gli animali:
“ Amici miei, il Cielo ci ha dichiarati colpevoli del nostro agire quotidiano, e ci è stato inflitto questo grande castigo, io penserei che, essendo tutti colpevoli di ogni fare, dovessimo trovare tra di noi, colui che più di tutti ha colpe da scontare, così da essere sacrificato così che il suo sangue versato possa portare ad ottenere la nostra guarigione.
Ora perciò ad ognuno è chiesto di fare esame di coscienza, e ammettere apertamente le proprie colpe e le proprie malefatte, io sono pronto a esporre le mie come quella volta che fui attirato da pura ghiottoneria di un gregge che mi trovai davanti, poveri innocenti agnelli, e tanto fu la mia briga che ci presi la mano e feci fuori anche il pastore, certo è grave ma prima vorrei sentire ciascheduno a essere sincero.che abbia da confessare ben più grossi peccati.”
“ Sire” disse la Volpe “ un re buono come voi siete non ne esiste al mondo, che significano questi scrupoli solo per aver abboccato qualche montone, non vedo nessun peccato per avere digerito questa razza di minchioni, anzi se devo essere sincero sono sicuro che fu un grande onore, per loro, sentirsi rosicchiato dai vostri nobili denti, quanto al pastore, in verità, avrebbe meritato di peggio, visto che osava sentirsi il re sopra le bestie, e re non lo era affatto.”
Fu uno scrosciare di applausi e di approvazione, e tanto fu l'effusione che non si badò certo a quel “pelo nell'uovo” degli altri animali, Tigri e Orsi e pure Cani sembrò che quel che fino ad allora avevano sbranato fosse cosa da nulla o quasi, e tanto si arrivò a biasimare da farne il loro fare cosa da Santi e da baciar le mani.
In ultimo s'alza a confessarsi un povero Asino, che dice del suo il più accorato vero, e con umile e sentito pentimento narra di come un giorno, andando in un fresco praticello di un monastero, fu colto non sa bene se da ghiottoneria, fame o tentazione del demonio, che si mise a brucare di quell'erba tenera, e fu perciò cosa rubata, ma ne prese soltanto una boccata.
Fu un gridare unico di forte anatema, di cosa di così grande peccato e ignominia, rubare l'erba di un prato del Signore, di un monastero, e fu dichiarato appunto che questi era il peccato grande che si doveva punire, che l'Asino venisse sacrificato perchè è lui la colpa del castigo che era stato inferto.
E come disse il giudice: “ La morte per si orribile disfatto era ben poca cosa.” E l'Asino fu ammazzato.
La morale ve la riporto come la scrisse il grande favolista ( e che è sempre e enormemente attuale)
“ Della giustizia quando siede al banco,
sempre il potente come giglio è bianco,
ma se a seder si pone il poveraccio,
è un sacco di carbone.”
Mia rielaborazione di una favola di Jean de la Fontaine dal libro “Les Fables”
Roberto Busembai (errebi)
Immagine web: Gustave Dorè - Animali malati di peste