martedì 15 ottobre 2024

LIBRERIE FARMACIA e.....Thomas Montasser - Il club delle fate dei libri


Non so se avete mai sentito parlare delle Librerie Farmacia, ebbene io ne avevo letto qualche cosa da qualche parte ma circa un mese fa, mio figlio (non lettore!) mi propose di andare a visitare a Firenze una libreria del genere. Naturalmente non ho saputo resistere e circa 15 giorni fa ne ho fatto visita. E’ collocata fuori dal centro di Firenze di circa quattro kilometri, ma una passeggiata gradevolissima in quanto prossima al lungarno e oltr’Arno dove si può così avere l’opportunità di ammirare la città.
Il locale in se stesso è piccolo ma vi assicuro è incantevole, una volta entrato sono certo di aver provato la sensazione di Alice quando attraversa la tana del Coniglio Matto, perché mi sono trovato in un’altra dimensione, un ambiente sereno, confortevole, silenzioso, caldo e invitante, dove i libri non te li senti addosso pur addobbino le intere quattro mura perimetrali, tutto è consono per rilassarti e metterti a tuo agio. La caratteristica di questa “Libreria” e che non ti avvicini agli scaffali cercando i libri a seconda della materia o genere che ami, non puoi cercare un autore in particolare, qui hai libri disposti a seconda del tuo “umore”, del tuo “stato d’animo sia emotivo che psicologico”, le etichette indicano queste tipologie di sensazioni come ad esempio vi è la sezione “fobie” oppure “manie” oppure “paure” o per le “ansie, o “problemi d’identità” , ecc, insomma per ogni tipo di “patologia” vi sono indicati una serie di libri-medicina.
La meraviglia di tutto ciò è che esuli dalle solite copertine commerciali e ti ritrovi a sfogliare libri di tutto e di più che non sapevi nemmeno esistessero, qui letteralmente i libri non si possono scegliere, sono loro che si avvicinano a te.
Ho acquistato un libro nella sezione “prendersi cura di se” perché ogni tanto volersi bene non guasta e la proposta è stata davvero ottima.
“Il club delle fate dei libri” di Thomas Montasser è un libro diverso da tanti, pensate che il narratore interprete alto non è che un non lettore che svolge il suo lavoro come corriere. E’ una lettura semplice e moderna, vivace, libera a tratti anche comica, che trascina non solo per la piccola storia di un amore, ma per la moltitudine di libri che vieni involontariamente a scoprire tanto sono nominati e descritti…….Un’avventura particolare in una società odierna tra traffico e rumori, tra indaffarate corse e impegni lavorativi, ma che comunque (ecco la cura del del libro) insegna come poter nonostante tutto sapersi districare da tutto per raggiungere la serenità interiore e la pace con se stesso, amarsi per poter davvero amare liberandosi giornalmente delle scorie che ci opprimono.
Un libro davvero tonificante e salutare.
Per finire quando viene impacchettato il libro nella meticolosa carta tipica delle farmacie, viene allegato anche un “bugiardino” , un cartellino dove sono scritte alcune frasi famose inerenti al “farmaco libro” acquistato.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Copertina del libro

martedì 3 settembre 2024

PIETRO LORENZETTI - NATIVITA' DELLA VERGINE



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E riapriamo oggi questa pagina dedicata all’arte, soprattutto quella pittorica, una pagina che da alcuni anni viene regolarmente seguita e apprezzata e di cui in merito a tutto ciò io ne vanto anche un poco di fierezza, non è questi non è dovuto soltanto dal merito che mi fate capire dalla vostra tenace volontà di seguirmi ma anche dalla consapevolezza che a tutt’oggi ci siano ancora tantissime persone che amano e vogliono conoscere, capire o se non altro vedere e amare l’arte.
In vicinanza alla festa religiosa del 8 settembre che la chiesa cattolica e quella ortodossa ricordano la nascita di Maria, oggi voglio proporvi un quadro di un grande Maestro dedicato proprio a questo evento.
Secondo i vangeli apocrifi e in specifica quello Protovangelo di Giacomo, si narra che Maria fosse nata da Gioacchino e Anna, e che anticamente in Oriente venisse già ritenuta una particolare festa, mentre la Chiesa occidentale ha avuto i suoi primi “vagiti” intorno al 650 quando per merito di Papa Sergio venne introdotta.
La festa è celebrata in moltissime città e spesso è caratterizzata nell’ambito agricolo con il finire dell’estate e di conseguenza del raccolto.
Sviluppatasi soprattutto nella provincia bizantina della Sardegna è poi esplosa nella diocesi ambrosiana già dal X secolo e basti pensare al Duomo di Milano che per merito di san Carlo Borromeo fu dedicato alla Maria Nascente.
Nel lontano 1335, in via di sistemazione degli altari nel Duomo di Siena dedicati ai santi protettori della città, ovvero Sant’Ansano, San Crescenzio, San Savino e San Vittore, fu commissionato a Pietro Lorenzetti un notevole dipinto che avrebbe dovuto essere ornamento dell’altare di San Savino.
Purtroppo l’opera che noi abbiamo oggi in visione è in definitiva una parte di un trittico in quanto gli scomparti laterali sono stati perduti nel tempo e raffiguravano appunto San Savino e San Bartolomeo e pure la predella che la rifiniva è andata scomparsa e rappresentava le storie di San Savino.
Ma è comunque da ammirare l’episodio della Natività della Vergine, parte centrale di quel detto “trittico” dove la magistrale mano del Maestro ha dato vita a una delle più “veriste” rappresentazioni. Pur essendo divisa in tre scomparti delimitati e definiti da tre pilastri verticali, la scena dominante è quella della madre Sant’Anna che adagiata sul letto, dopo l’avvenuto parto, è visitata da una donna mentre guarda e segue le due ancelle “ostetriche” che eseguono il primo lavaggio di Maria. Sulla destra dominano altre due ancelle che portano della biancheria pulita decorata con giochi ornamentali di colore bianco e nero (colori della città di Siena).
Ma il tutto è doviziosamente e dettagliatamente raffigurato, gli arredi e le suppellettili, dalle mattonelle del pavimento alle stelle sulle volte, il ventaglio intrecciato e gli asciugamani decorati che già abbiamo citato, il letto a cassone tipico medievale e la coperta a scacchi ...insomma una stanza viva e comunque in movimento dove vige un certo pathos di allegria e frenesia del fare, seguire, essere presenti e lavorativi.
Una scenografia “in movimento” che ci rende quasi partecipi e ci porta pure a sentirci quasi in dovere di fare un qualche cosa per renderci d’aiuto.
Sulla sinistra si coglie un diverso ambiente, è sicuramente fuori dalla stanza ma attiguo, l’ambientazione è più pacata, molto “architettonica”, e si evolve in un cortile presumibilmente il Palazzo pubblico di Siena. Quivi un anziano, Gioacchino il padre di Maria, che viene avvicinato da un fanciullo che sicuramente gli sta annunciando la lieta notizia della nascita della figlia.
Possiamo con certezza assoluta asserire che questa opera del Lorenzetti può benissimo rientrare tra le sue più belle rappresentate anche per l’insolita e originale rappresentazione della scena in un “trittico” in cui non esiste divisione netta, ma una continuazione, come la camera di Sant’Anna, e una profondità che al tempo erano quasi improponibili e impensabili. Una composizione bizantina ma nell’insieme un dipinto italiano dalle chiare influenze di Giotto.
Una nota il quadro è firmato e datato e l’iscrizione è visibile sulla cornice sotto il pannello centrale ed è la seguente: PETRUS LAURENTII DE SENIS ME PINXIT MCCCXLII

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Pietro Lorenzetti – Natività della Vergine

lunedì 1 luglio 2024

JAN VAN HUYSUM - NATURA MORTA CON FIORI E FRUTTI


Ogni tanto adoro uscire dalla routine di sempre, mi piace conoscere cose nuove e anche se magari non rientrano nelle mie “corde” cerco comunque di avvicinarmici anche per comprendere meglio o se non altro accertarmi che davvero quel qualcosa non mi piace definitivamente. E così anche nell’arte, soprattutto pittorica, io adoro il periodo Rinascimentale, e forse dai lavori che ho “analizzato” in quasi cinque anni e più , ve ne sarete resi conto, ma c’è sempre per me una prima volta, lo so di certo, come oggi che “affronto” , una tematica che non mi ha mai attirato, La natura morta o Still-life e il periodo è il ‘700.

Devo dire comunque prima di iniziare che questo quadro è di una meraviglia assoluta, può piacere o meno, ma bisogna riconoscere obiettivamente la bravura, il genio, di questo artista olandese.
Jan van Huysum è nato ad Amsterdam nel 1682 da una famiglia di artisti, suo padre, Justus van Huysum il Vecchio dipingeva esclusivamente fiori e a sua volta due dei suoi tre fratelli, e questi furono perciò gli insegnanti “privati” che Jan ebbe la fortuna di avere. Era un conoscitore di fiori e non perdeva occasione per andarli ad osservare da vicino, spesso si recava nella vicino centro orticolo di Haarlem dove poteva avere l’opportunità appunto di studiarli.
Ben presto divenne famoso e i suoi lavori erano ricercatissimi non solo in Olanda ma anche all’estero,i re di Polonia e Prussia per esempio erano i suoi maggiori collezionisti.
Natura morta con fiori e frutti è una pittura ad olio su pannello del 1715 circa, dove esprime con questa magnificenza di fiori quella che era al
tempo la pittura olandese tendente alla rappresentazione della natura morta. I fiori e i frutti, in un’abbondanza davvero unica, sono disposti sia nei colori che nella conformazione in un’armonia tale da renderne a chi l’osserva un chiaro motivo d’ammirazione quasi musicale. Tutto è talmente reale, talmente convincente che non occorre l’immaginazione per comprenderlo.
Il Maestro amava fare realmente composizioni, li combinava secondo la sua immaginazione e poi li rendeva precisi su tela o pannelli. Era molto riservato nel suo operare che vietava assolutamente a chiunque di entrare nel suo studio quando lavorava, soltanto una volta, con riluttanza, accettò di avere un’allieva una certa Margareta Haverman, ma appena si rese conto che essa stava diventando molto abile nell’imitarlo, la licenziò subito.
In una lettera a un mecenate, nel 1742, Van Huysum si rammarica dicendo che avrebbe terminato l’opera anche l’anno precedente se avesse potuto avere una rosa gialla e non solo gli mancavano anche l’uva, i fichi e addirittura una melagrana. Questo per comprendere l’operosità, la pignoleria e la “maniacalità” quasi, che aveva nel “costruire” il modello per poi rappresentarlo efficientemente..
Osservando bene l’opera potremmo innanzitutto notare le rose che sono il fiore “tradizionale” della pittura in quanto legate per associazione alla Vergine Maria che veniva appunto descritta come una “rosa senza spine”, e il colore rosa era il colore più comune tra quelle selvatiche e anche il più apprezzato dagli orticoltori.
Non possono certo mancare, essendo olandese e abitando in Olanda, i tulipani che sono poi il fiore più comune della natura morta olandese in generale.
Ma continuando il nostro viaggio visivo, non possiamo rimanere indifferenti sulla straordinaria finezza e tecnica che il Maestro possiede nel dare consistenza morbida e vellutata alle pesche, la loro indiscutibile forma voluttuosa e rotonda tale da invogliare ad assaggiarle e non contento di tutto ciò, per dare ancor maggiore credibilità, ha sottolineato il contrasto con un insetto e simboleggiato la brevità dell’esistenza umana in quanto la sua vita è assolutamente breve, in contrapposizione poi con una farfalla che volteggia su una morbidissima rosa che invece rappresenterebbe la rinascita o resurrezione.
Un unico garofano che giace sporgendosi sul ripiano in basso, testimone sicuramente dell’amore, del romanticismo e per terminare l’assoluta verosimiglianza dell’uva, quelle bucce traslucide che invocano il più succoso dei vini che sicuramente intonano l’allusione al vino dell’Eucarestia, ovvero del sangue di Cristo.
Jan Van Huysum dava dimostrazione delle sue geniali capacità e sapeva benissimo miscelare e comporre quella grande varietà di toni e sfumature in assoluto equilibrio, un contrasto di colori davvero preponderante come il rosso del papavero risalta sui fiori bianchi.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Jan Van Huysum – Natura morta con fiori e frutti ( olio su pannello, 78x61cm) , National Gallery of Art di Washington (USA)

lunedì 17 giugno 2024

VINCENT VAN GOGH - SULLA SOGLIA DELL'ETERNITA'


C’è una malattia subdola, venale, viscida, che s’insinua nella mente dell’uomo e lo divora piano piano, giorno dopo giorno, ora dopo ora, e non esiste forza che possa arginarla, sconfiggerla, deteriorarla, è senza dubbio la depressione. La depressione deturpa l’aspetto interiore dell’uomo, lasciandolo solo, inetto, incapace, opaco, affaticato e desolato, con una miriade di difficoltà che altro magari sono le consuete abitudini del giorno. L’uomo si isola, odia l’intorno, disprezza anche e fortemente se stesso e nei peggiori dei casi pensa anche a compiere atti estremi alla sua incolumità conservativa.

Vincent Van Gogh, il Maestro eccelso dei colori, dei prati e della luce, di questa malattia ne combattè pienamente e ne fu pure lo scopo dei suo straordinari quadri, tanto da esserne ossessionato dai colori stessi, i gialli soprattutto che forse erano ancor più accentuati dall’abuso di assenzio che causa appunto xantopia(visione gialla delle cose). In ogni suo quadro pur vivo e lucente racchiude tutta la sua angoscia e dolore quotidiano.
“Sulla soglia dell’Eternità” il Maestro porta all’identificazione vera e propria della depressione, trasportandola in quel vecchio seduto, chinato in avanti che si copre il volto con i pugni. Un dolore che soltanto chi lo ha provato e lo prova può così bene rappresentare o al contempo comprendere.
Questa opera venne iniziata negli ultimi momenti di vita del Maestro, in un attimo di convalescenza e terminato a pochi mesi dalla sua scomparsa, venuta a causa di una ferita da arma da fuoco, che pare procuratesela da solo.
Analizzando il quadro vi sono vari elementi che ci portano a pensare alla depressione, i colori in primis sono opachi, scuri e trasmettono a guardarli un senso puro di distacco e di tristezza, il gesto dell’uomo è chiaramente identificativo del dolore, del pianto e della disperazione. Ed è difficile non entrare in empatia con questo anziano. Vi sono molte linee verticali, come sulle assi del pavimento, sulla sedia e sul muro che creano quel voluto senso di disagio della stanza, mentre alcune linee orizzontali come quelle di alcune parti della sedia, scandiscono proprio il conflitto che spesso la malattia si trova a combattere, tra il caos e la calma, momenti scanditi durante la giornata in un tragico alternarsi.
C’è comunque in tutto questo quadro anche un accennato senso di speranza che è dato dal fuoco sullo sfondo.
Van Gogh con questo quadro ci parla direttamente, anche se quell’uomo non è il suo autoritratto, lo è comunque nelle sensazioni, nel dolore, nell’angoscia che esprime. Uno stile artistico tra i più grandi per la capacità di trasmettere emozioni così altamente profonde.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web:Vincent Van Gogh – Sulla soglia dell’etertnità (1890 


 80x64cm) – Kroller Muller Museum di Otterlo (Paesi Bassi)





martedì 11 giugno 2024

RAFFAELLO SANZIO - LA MUTA


Si resta muti quando ci meravigliamo di un evento o una soluzione e non abbiamo più termini o parole per dimostrare la nostra “sorpresa”, il nostro stupore e di come tutto ciò, a volte, abbia potuto accadere, o restiamo muti e silenti di fronte a un evento triste, a un addio compito, dove le parole ormai anche ci fossero non basterebbero a colmare il dolore che ci sovrasta.
Si resta muti e basta in tante occasioni dove noi piccoli umani dobbiamo soccombere per incapacità e impossibilità di poter fare diversamente e dove le nostre umili parole altro non sarebbero che piccolissimi granelli di sabbia in una vastità d’immenso deserto.
E oggi spesso ci si sente muti e attoniti, e per questo ho ritenuto giusto prendere come spunto, questa meravigliosa opera di Raffaello ( creduta in un primo tempo di Leonardo da Vinci per alcune similarità) ,titolata appunto “Muta” per l’espressione indecifrabile, quasi “muta” di questa donna che si presume soccomba a un enorme dolore, quello della morte del marito.
E’ tutt’ora un mistero irrisolto, la figura rappresentata da Raffaello ha avuto diverse letture e diverse sono state le appartenenze attribuite, in ultimo ancora rimane più verosimile l’essere riconosciuta come il ritratto di Giovanna da Montefeltro (figlia di Federico da Montefeltro) , moglie di Giovanni della Rovere, ritratta appunto dopo l’avvenuta morte del congiunto divenendo lei stessa la reggente dei Feudi Urbinati.
L’impossibilità di dare la certa identità è dovuto anche al fatto che mancano persino informazioni sul committente, l’unica cosa certa è che venne realizzata intorno al 1507 a Firenze dove il Maestro risiedeva e operava e dove fu scoperta intorno al 1666 nell’eredità appunto del cardinale Carlo de’ Medici, e tutto questo porterebbe comunque a presupporre che il committente derivasse proprio dalla famiglia della Rovere in quanto furono loro a finanziare il soggiorno di Raffaello a Firenze.
Da quel giorno l’opera ha sempre subito notevoli cambiamenti, in primis trova residenza a Palazzo Piti, poi alla villa medicea di Poggio a Caiano, poi agli Uffizi di Firenze nel 1773 per poi in età moderna trovare fine alla Galleria Nazionale delle Marche.
Che la “Muta” non trovasse mai pace lo sottolinea anche una curiosità, infatti il 6 febbraio 1975 l’opera, insieme alla Madonna di Senigallia e alla Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca, viene rubata dove però l’anno seguente fortunatamente viene ritrovato il tutto a Locarno.
Il ritratto di questa dama, che per alcuni aspetti rimanda alla Gioconda di Leonardo da Vinci, denominata muta, racconta invece con la sua compostezza, con quella fissità degli occhi, tutta la sua tristezza, uno sguardo lontano, vacue. Il lutto sembrerebbe accentuato appunto dalla veste di colore verde che simboleggia appunto vedovanza e dal fazzoletto nella mano sinistra.
Le mani sono raccolte ( questo atteggiamento riporta a un’influenza nordica) anche se l’indice è rialzato quasi a indicare un qualcosa che a noi non è dato di vedere.
Simbologie ne troviamo anche negli anelli come il rosso rubino che ha sull’anulare sinistro che simboleggia la prosperità e lo zaffiro sull’indice sinistro che è un puro e assoluto simbolo di castità.
Mistero o no, questa opera lascia comunque ancora di più intendere il sapiente e grandioso talento di Raffaello e del suo “gentile” pennello nel trasmettere sentimenti e situazioni.
E Muti rimaniamo anche noi di fronte a questa meraviglia, perché le parole anche ci fossero non servirebbero, parla da se.

Roberto Busembai (errebi)



Immagine web: “La muta” – Raffaello Sanzio (Olio su tavola, 1507, 64x48cm) – Galleria Nazionale della Marche (Urbino)


giovedì 16 maggio 2024

CONOSCIAMO FLEA





CONOSCIAMO FLEA

Mi chiamo Flea e sono….beh sono un essere spaziale, senza poteri e senza effetti speciali, sono così come mi vedete, un essere normale...come tanti, forse differisco nell’aspetto, non lo nego, ma sono un bambino nel cuore e nel cervello, nell’animo soprattutto sono uguale al mondo.
Sono arrivato sulla vostra Terra in un’alba incantata, di quelle colorate e intense che non se ne vede di frequente, e sono caduto, per essere preciso, proprio mentre sorvolavo il vostro pianeta e una luce viola accecante mi ha fatto sbagliare direzione e distratto ho perso il controllo di me stesso e…
non è accaduto niente di particolare, solo che sono qui, solo, in questo momento e i bambini di tutto il mondo e di tutto l’universo hanno paura a stare soli e non lo dovrebbero essere obbligatoriamente.
Come vedete sono di colore giallo arancione ma ho pure due bellissimi occhi azzurri come il cielo, giro per lo spazio in cerca di qualcuno, e sempre mi sono ritrovato con bambini accoglienti, simpatici e molto coinvolgenti, non conosco questi della Terra, ma sono sicuro che saranno meravigliosi e insieme scopriremo molte cose, io ho molto da imparare ma posso anche insegnare se non altro quello che ho visto e ho provato in questo mio viaggiare.
Intanto per farvi contenti, mi sono subito travestito da astronauta e vi aspetto per un primo viaggio fantastico sulla luna, io non avrei avuto bisogno di indossare questo ingombrante scafandro, ma dato che voi non potreste farne a meno, non voglio essere diverso e farvi sentire in imbarazzo, e allora su salite sull’astronave dei nostri fantastici pensieri e arriviamo sulla luna prima che faccia notte, altrimenti lei se ne va a prendere il posto del grande sole e noi non ci potremmo atterrare perché farebbe buio pesto.
Ah un’altra cosa, la prossima volta che ci incontriamo racconteremo a coloro che non sono potuti venire o che non ne erano informati, quello che abbiamo visto e quello che abbiamo fatto, perché l’avventura deve essere conosciuta e nessuno deve rimanere indietro.
Ciao, siete pronti? E allora “navighiamo”!




Roberto Busembai (errebi) da LE AVVENTURE DEL BAMBINO FLEA

Disegni Errebi – Bambino Flea e Flea con tuta spaziale

martedì 14 maggio 2024

ANDREA MANTEGNA - CRISTO MORTO


Se si fossero eseguite le volontà del Maestro, questa tela forse non avrebbe avuto il successo (meritato) , perché Mantegna lo tenne per molto nel suo studio in quanto desiderava che fosse collocato ai piedi del suo monumento funebre.
Ma contravvenendo a questi desideri, il figlio Ludovico lo cedette con altre opere a titolo di pagamento (alcuni ritengono come dono) ai Gonzaga.
L’opera da allora in poi raggiunse la notorietà e al contempo assunse quel valore mistico che a ogni opera devozionale si rispetti facendone icona al tempo stesso di immagine di dolore.
Molti furono i tentativi di copiatura, alcune con addirittura la firma falsa dell’autore fino ad arrivare ai primi dell’Ottocento quando il creatore della Pinacoteca dell’Accademia di Brera, Bossi, la scoprì in possesso della famiglia Aldobrandini di Roma riuscendo ad acquistarla ma il problema che insorse era farla uscire dai confini dello Stato del Pontificio in quanto vigeva una ferra legge che vietava in maniera assolutamente indissolubile l’uscita di opere d’arte dal presente Stato a salvaguardia delle opere stesse che non venissero disperse nei paesi “esteri”.
Leggenda o verità o un misto delle due, narrano che fu l’inventiva del Maestro Antonio Canova, il quale usando un’astuzia simile a quella del Cavallo di Troia di Ulisse, nascose l’opera nell’imballaggio di una sua scultura che era diretta a Milano. Il destino volle la tela arrivasse sorprendentemente intatta, sorprendentemente perché essendo una tela dipinta a tempera magra era altroché soggetta a deterioramento e sorprendentemente perché durante il trasporto l’opera del Canova arrivò interamente distrutta.
E’ un’opera dalla visione prospettica alquanto particolare e unica, assolutamente geniale, dove la figura del Cristo viene osservata dal basso e dai piedi, una prospettica che ha fatto insorgere spesso anche critiche notevoli, oltre che lodi, soprattutto se l’opera stessa essendo esposta solitamente in alto fa si che il senso prospettico alteri in maniera incongruente le misure, come i piedi che apparirebbero troppo piccoli, le gambe corte rispetto a tutto il corpo ecc….
Nel 2013 il regista Ermanno Olmi usò un’esperimento che dava onore all’opera stessa in quanto la inserì in una stanza completamente dipinta di nero e la collocò a un’altezza di circa sessantasette centimetri da terra, tale da doverla osservare inginocchiati, come le tre figure che appaiono nella tela stessa, che poi sarebbe stata la vera collocazione pensata e voluta dal Maestro stesso.
L’opera d’arte in se stessa è di una valenza particolare, che invade il sentimento umano e irradia quel senso di dolore dovuto alla mancanza di un familiare o una persona cara, offrendo ancor di più il pathos in quanto trattasi di una figura, la più eccelsa, della religione cristiana.
Le tre figure che ho appena accennato altro non sono che la Madre, la Madonna, addolorata e piangente, San Giovanni e l’altra forse la Maddalena, tutte e tre adattate al taglio della tela, una tecnica che sarà poi ripresa dal grande Caravaggio.
Il letto di marmo venato, e le venature sembrano quasi la scia delle lacrime della Madonna, il nero assoluto intorno a sottolineare la morte, il vaso degli unguenti che sottolineano la preparazione del corpo al lungo viaggio, il cuscino dipinto con eccezionale tecnica da farlo credere di seta, il livido colore della morte sul volto e sul corpo del Gesù, un pallore che poi Raffaello userà e estenderà anche sul volto affranto della Madonna nella sua stupenda Deposizione, il Cristo assolutamente morto, gli occhi chiusi, le labbra quasi serene, il corpo totalmente abbandonato dalla sofferenza, fanno si che questa opera, oltre alla visione prospettica sopra detta, raggiunga il più alto livello della pittura e del naturalismo.
Un’opera a cui il cinema molto spesso si è avvicinato usandone proprio l’intera rappresentazione prospettica, come il corpo del marinaio morto nel famoso film “La corazzata Potemkin” di Sergej Ejzenstejn, oppure Pier Paolo Pasolini che la usa per la rappresentazione della morte del ragazzo in carcere del famoso film “Mamma Roma” o Federico Fellini in Satyricon o la più famosa scena del cadavere dell’astronauta Bowman in “Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Andrea Mantegna – Cristo Morto ( Pinacoteca di Brera, Milano)

lunedì 22 aprile 2024

ORAZIO GENTILESCHI E GIOVANNI LANFRANCO - SANTA CECILIA E UN ANGELO


Difficilmente decido quale opera d’arte commentare, perché mi piace che la cosa nasca spontanea, d’impulso, che avvenga quando ne sento il desiderio, ed ecco spiegato il motivo non sempre sono continuativo su questa pagina, della quale colgo l’occasione per ringraziarvi tutti quanto per la fiducia e l’apprezzamento che mi offrite. Ed è proprio nata così la voglia di presentarvi questo dipinto che mi ha attirato particolarmente mentre sfogliavo il catalogo della National Gallery of Art di Washington, un dipinto che all’ammirarlo incute tanta dolcezza e musicalità d’animo.
Rappresenta la Santa Cecilia mentre sta suonando un organo portativo, e di per se questo quadro potrebbe apparire come una rappresentazione di una comune scena di vita quotidiana, ma è arricchito e rifinito dalla presenza del bellissimo angelo che sorregge uno spartito che fa così diventare la rappresentazione di carattere religioso.
Il quadro è di Orazio Gentileschi, del 1617, che lo eseguì in parte, in quanto fu richiamato a Genova, di sua maniera sono le teste e i busti e questa Santa Cecilia differisce da una sua omonima versione Perugina, in quanto non presenta l’attributo caratteristico della ghirlanda di rose sul capo.
Questa è rappresentata con un’accurata acconciatura che si rifà alla moda del tempo, ovvero con trecce riportate, mentre il volto è il tipico volto femminile amato dal Maestro che ritroviamo in molte delle sue opere, e in questo caso l’espressione ha una notevole forza di trasporto spirituale tendente proprio all’estasi.
Il delicato angelo, da memorie fanciullesche, è sicuramente un apporto di origine caravaggesca di cui il Gentileschi ne era affascinato come poi in seguito la più famosa figlia Artemisia, un angelo che sorregge lo spartito ammirando con aria delicata e innocente l’esecutrice.
La rappresentazione della Santa Cecilia è sempre stata accomunata a qualche simbolo musicale in quanto ritenuta protettrice di questa arte, e in questo caso il Maestro le ha conferito la capacità di suonare un organo portativo, mettendo in risalto le sue lunghe e affusolate dita che fin dai tempi del medioevo sono simbolo di spiritualità.
L’opera fu portata a termine alcuni anni dopo, precisamente nel 1621, da Giovanni Lanfranco.

Roberto Busembai (errebi)
Orazio Gentileschi e Giovanni Lanfranco – Santa Cecilia e un Angelo ( National Gallery of Art di Washington)

martedì 26 marzo 2024

LORENZO LOTTO - CRISTO PORTACROCE


E’ indubbio, sia per i credenti cristiani sia per i non, che l’anticipo della Pasqua abbia assunto sempre più un valore più umanistico che spirituale, c’è un forte bisogno di pace vera, sicura, certa, una pace sentita dal profondo di ogni animo, una pace che non conosca diversità o etnia, stato e/o addirittura politica, una grido unanime lanciato dall’uomo in generale, l’uomo quell’unico animale che in quanto possessore d’intelligenza, non riesca con questa ad usarla per un suo universale beneficio. Premesso tutto questo oggi voglio perciò proporvi questa opera, certamente con soggetto religioso, ma che comunque parla e urla anche a coloro che non lo sono, perché la rappresentazione tutta è volta a chiedere da parte di un Supremo, un aiuto non divino ma terreno, un aiuto per le sofferenze patite e per gli affronti subiti da chi, umano come noi spettatori ha osato senza pietà alcuna.

Era il 1980 quando una congregazione di un convento di suore in Provenza, per poter usufruire di un poco di moneta da usare anche per i poveri, decisero di fare “pulizia” di tutto quello che era ammassato e non usato negli anni precedenti, diciamo che fecero pulizia delle soffitte, e in questo “rinnovamento” c’era anche un quadro, di notevole bellezza, ma definito come tanti, una crosta.
Comunque riuscirono a ricavare qualche migliaio di Franchi  vendendo il tutto a un antiquario.
Quest’ultimo però nel ripulire la tela si accorse che era firmato e così lo portò all’allora storico d’arte  francese André Castel che riconobbe subito in questo un capolavoro dei Lorenzo Lotto ovvero il “Cristo portacroce” datato 1526.
Il quadro venne poi acquistato dal Louvre per la “modica” cifra di tre milioni e mezzo di Franchi, e le suore venute a conoscenza di ciò cercarono di rientrare in possesso di quel quadro “bistrattato” ma ogni causa contro il museo fu assolutamente invana.




Il quadro pare fosse realizzato per una destinazione privata, un evidente soggetto devozionale riguardante un preciso momento della Passione di Cristo, soprattutto per mettere volutamente in risalto la sofferenza del Cristo per poter così suscitare in chi lo avesse ammirato, una sorta di mistica meditazione, e per far si che tale processo avvenisse istantaneo e immediato, il Lotto ha usato di proposito le dimensioni ridotte e messo in assoluto primo piano il volto del Cristo, creando al contempo quel senso di peso che lo stesso Gesù prova nel trascinare quella croce al suo pulpito.
E’ un grido quel volto, è una supplica, è un aiuto che il Divino chiede all’umanità e se poi pensiamo che la rappresentazione è rivolta al momento in cui si parla nelle scritture, quando Cristo ormai allo stremo cade con la croce durante il trasporto verso il Calvario, e i suoi aguzzini mentre infieriscono colpendolo e tirandogli i capelli nel tentativo di spronarlo a rialzarsi, chiedono all’umano Simone di Cirene detto il Cireneo di addossarsi il peso della croce, in quanto c’è bisogno di accelerare il processo di crocifissione, bisogna porre fine a tutto questo il prima possibile.
Per il Lotto noi siamo il Cireneo, il Messia con tutta la sua umiltà terrena ci chiede di sostenere quella Croce, ci chiede di essere magnanimi e di comprendere.
Il dolore del Messia è intenso, le stesse copiose lacrime lo testimoniano, e le evidenti ferite causategli dalla corona di spine ne sono la profonda e dettagliata testimonianza , le mani del Cristo sono quasi diafane in contrapposizione a quelle dei suoi carnefici, scure e chiuse, che imprimono e testimoniano la violenza e la bruttura. 
E il Lotto sorprende ancora con la particolarità stessa della firma, a confermare la sua abitudine che pone sempre la firma in un determinato posto tale da essere parte integrante della rappresentazione stessa, qui la pone sul braccio della croce ma in senso inverso, ovvero chi guarda il quadro la vede rovesciata onde per cui per poterla vedere giustamente, si dovrebbe rovesciare il dipinto stesso. Ed è proprio questo voluto movimento che pone il Lotto e al contempo noi stessi in un atto di pietà, in quanto attraverso la sua firma a rovescio egli e noi di riflesso, siamo un poco come San Pietro che imitò il Cristo facendosi crocifiggere ma a testa in giù.
Un quadro da una forza esteriore potente e che arriva subito al cuore, un quadro che pur nella sua forte manifestazione di dolore e pena grida pace.
Buona Pasqua amici carissimi.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Lorenzo Lotto – Cristo portacroce e dettaglio dello stesso